Abbiamo appena assistito e/o partecipato (in pochissimi) a un rito tanto sacro quanto reso inutile dalle motivazioni di pura speculazione egoistica da parte di una Lega in caduta libera. Si tratta del Referendum abrogativo del 12 giugno che poneva cinque quesiti non solo complessi da capire, ma anche pericolosi per le conseguenze che ne sarebbero derivate in ogni caso. E il costo di questo insultante spreco di denaro pubblico – e di costante assalto nocivo all’intelligenza dei cittadini attraverso i boatos che ne promuovevano risposte contraddittorie – è stato enorme, in un momento in cui la guerra in Ucraina ha già rubato 70 miliardi di Euro al bilancio dell’Italia e molti di più alle tasche degli italiani. Nella democrazia a geometria variabile, che riguarda gli italiani all’estero, nel caso dei referendum abrogativi il numero totale degli aventi diritto al voto fuori dai confini viene calcolato ai fini del raggiungimento della soglia di validità, fissata nella partecipazione del 50% +1 dei  potenziali votanti ovunque si trovino in Italia e nel mondo. Da ricordare che invece i voti degli italiani all’estero non sono contati ai fini della determinazione dei risultati delle consultazioni politiche. Un solo esempio: nel 2013, se fossero stati sommati i voti all’estero a quelli italiani, il partito di maggioranza relativa sarebbe stato il PD e non avremmo assistito allo scempio della dignità delle sacre aule del Parlamento, appuzzite dall’olio delle scatolette di tonno, aperte dai “cittadini M5S”, né a tutte le recenti farse e acerrime lotte intestine della loro dittatura interna, anche a suon di denunce e ricorsi alla magistratura. A tutt’oggi non abbiamo un quadro chiaro di quanti elettori hanno votato per il referendum nei diversi Paesi, distinti per circoscrizioni consolari, e delle loro scelte. Non sappiamo e non sapremo mai quanti plichi sono stati spediti e a chi. Noi del Gruppo Cattaneo scriviamo venerdì 17 giugno per l’edizione di sabato 18 giugno, quando alcuni di noi non hanno ancora ricevuto il plico. Vi terremo al corrente degli sviluppi perché, se il plico arriverà, potremo dire che è stato davvero inviato a tutti gli aventi diritto e che le colpe ricadono sulle Poste locali o i ritardi di spedizione delle ditte scelte da Ambasciate e Consolati. Se invece non arriverà, saremo costretti a parlare di democrazia (o pseudo tale) selettiva e sarà assolutamente necessario capire quale deus ex machina ha deciso che Giuseppe riceva il plico e possa votare, ma Giovanna no. Per ottenere questi ridicoli risultati, l’Italia ha speso all’estero 24 milioni di Euro, incluse le campagne di informazione, del tutto insufficienti per raggiungere le zie Genoveffe e gli zii Marcovaldi, non digitalmente capaci. A fronte di questo scempio di fatiche e di fondi, che spesso non sono stati destinati nella maniera più produttiva e includente, il Parlamento ha invece approvato l’applicazione dell’opzione inversa al voto per i Com.It.Es., primo organismo di rappresentanza di base degli expat. Vale a dire che, se vuoi votare, devi registrarti al Consolato. Anche in questo caso la campagna di informazione è stata quanto meno scarsa. Thomas Jefferson scriveva alla fine del Settecento: “Dove la stampa è libera e ogni uomo sa leggere, tutto è sicuro”. Ma se la stampa viene zittita o condannata a morte e la gente non può avere un quadro chiaro di quanto sta succedendo, muore anche la democrazia e ci dirigiamo inevitabilmente verso una seconda stagione di discorsi, urlati da piazza Venezia, da suprematiste femmine, che sostituiranno un uomo pelato in uniforme militare. I risultati delle ultime elezioni dei Com.It.Es. sono stati anch’essi profondamente deludenti, limitandosi a una media mondiale del 3 o 4% di votanti su una percentuale non molto superiore di registrati al voto fra i quasi 5 milioni di maggiorenni iscritti all’AIRE. Come sempre la colpa è stata scaricata sui Com.It.Es. stessi: “poco attivi”, “poco conosciuti”, “da riformare”, eccetera, eccetera, eccetera. Viene in mente una frase latina che non si cita molto spesso: Deliberandum est quicquid statuendum est semel. Vale a dire: “Bisogna meditare e discutere a fondo tutto ciò che deve essere deciso una sola volta per sempre”. E, aggiungiamo noi, tutto ciò che può portare danni irreparabili nel tempo. Facciamo un’ipotesi devastante, che sta cominciando a circolare con forza crescente nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Si tratta della proposta di applicare l’opzione inversa anche al voto politico degli italiani all’estero per l’elezione del ridicolo numero di parlamentari rimasti: 4 senatori e 8 deputati per 6 milioni e mezzo di persone. In certe aree del mondo, i prevedibili risultati di questo insulto ai principi stessi della democrazia saranno la stravittoria di Movimenti, Unioni, Associazioni e altre realtà che, nella nuova stupida ondata del politicamente corretto linguistico, schifano la connotazione di “partito” – pur essendolo e comportandosi come tale – malgrado l’Art. 49 della bellissima Costituzione italiana sancisca: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. L’antidemocratica opzione inversa consegnerà il futuro politico delle rappresentanze degli italiani all’estero a chi sarà capace di organizzare un numero sufficiente di capibastone, che iscrivano soltanto i propri sostenitori all’elenco degli elettori, ritirino le loro schede e le votino per il proprio agglomerato di interessi privati. Ne abbiamo visto una dimostrazione nella battaglia pluriennale che il Sen. Fabio Porta ha dovuto combattere per farsi riconoscere la legittima elezione al Senato della Repubblica italiana, contro i brogli effettuati a favore dello pseudo eletto dall’USEI Adriano Cario, poi passato al MAIE e dichiarato decaduto il 2 dicembre del 2021. Il progressivo disinteresse e l’emergente distacco degli esponenti della mobilità e delle nuove generazioni all’estero fanno mal presagire per il mantenimento delle loro stesse rappresentanze nel futuro. All’ “imperialismo borghese frasaiolo”, cui si opponeva il poeta Dino Campana, il politico democristiano Franco Foschi aggiungeva come imperativo: “In regime di libertà, esistere significa esistere politicamente”. Ne discende che noi tutti abbiamo l’obbligo di salvare il dibattito politico costruttivo dalle picconate distruttive degli opportunisti. 

(CARLO CATTANEO)