Non è la prima volta che un referendum in Italia non raggiunge il "quorum", ma mai si era visto un dato così basso negli ultimi trent'anni. Peggio delle trivelle del 2016, che registrò un'affluenza del 31 per cento circa. E peggio anche del referendum sulla legge elettorale del 2009, dove andò a votare il 25 per cento degli elettori. Va bene la pandemia, la guerra, la crisi, l'inflazione: le priorità degli italiani sono altre, in questo momento ruotano attorno al "potere d'acquisto". Va bene anche che i referendum più popolari, come l'eutanasia, non sono stati ammessi (perché scritti male) e va bene anche i quesiti ammessi erano complicati, questioni tipicamente parlamentari.
E, diciamola tutta, anche l'abuso dei referendum nell'ultimo trentennio ha prodotto una disaffezione rispetto alle fortune degli anni Settanta o alla preferenza unica che contribuì a scardinare il sistema della Prima Repubblica. Gli ultimi ad aver raggiunto il quorum - eccezione nell'ambito di un lungo declino - furono quelli sull'acqua pubblica e sui servizi pubblici locali, che intercettarono, nel 2011, una domanda di cambiamento.
Però gli stessi italiani sono coloro che, interpellati in materia, dicono che la giustizia non funziona. E che tributano alla magistratura, travolta dagli scandali di Amara e Palamara, il minimo storico della fiducia. E, se c'è sfiducia verso qualcosa, si vuole che questo qualcosa cambi. Eppure stavolta il segnale non l'hanno dato né, in senso stretto, di merito, né, in senso lato, politico: un voto "contro", o comunque un sasso nella palude dell'immobilismo che accompagna le discussioni in materia. In passato è accaduto: mica l'Italia votò contro la preferenza unica pensando al merito della tecnicalità elettorale, votò perché quel quesito era l'occasione per mandare a casa un sistema di potere. Così come è accaduto che la semplice raccolta delle firme fungesse da stimolo per risvegliare il Parlamento dagli istinti soporiferi. Niente da fare, è mancato sia lo stimolo che la capacità recettiva del destinatario: la riforma Cartabia, di cui si è promessa l'approvazione prima del voto, non è stata approvata. Né c'è stata la mobilitazione popolare. Risultato: siamo senza riforma e senza quorum.
La verità è che anche questo record di astensionismo si spiega nella storia più grande. E a che fare solo parzialmente con la goffa campagna di Salvini la cui ombra sui referendum, come gli accade su parecchie questioni, è stato un amplificatore del distacco. Lui non ha il pathos, l'elemento empatico, la coerenza politica: complicato presentare i referendum contro la custodia cautelare e poi gioire per gli arresti. E dunque non ha mobilitato. Gli altri hanno trovato l'alibi per non parlare di giustizia perché sono "i referendum di Salvini" e, se non raggiungono il quorum, è un colpo per lui. E dunque non hanno mobilitato neanche loro.
Però la storia più grande racconta di una disaffezione, segno che anche questo strumento – la famosa democrazia diretta - non viene più percepito, nell'Italia di oggi, come un vaccino rispetto alla crisi della rappresentanza e della politica. Anzi, quella crisi la riflette. Ed è parte di un rifiuto verso tutto ciò che è politico ed è partecipazione reale, cosa diversa rispetto alle firme online. Non è forse un caso che questa rottura del rapporto tra popolo e referendum si consuma nel momento più acuto della crisi di sistema. È la cronaca degli ultimi anni: gli schieramenti incapaci di prospettare una via d'uscita alla crisi, la soluzione di emergenza a palazzo Chigi e quella, altrettanto di emergenza al Quirinale, l'eccezione che cioè che, lungi da essere una parentesi, diventa regola e si autoriproduce. Ed è la cronaca dell'ultimo decennio, di governi non espressione diretta della volontà popolare e di un kamasutra politico iniziato con un innaturale rapporto a due (Pd-Pdl) e finito con l'ammucchiata di tutti dopo diverse acrobazie in questa legislatura. Detta così è un po' catastrofista, ma spiega il sentiment: se il voto è una delega in bianco e se poi lo stato di eccezione "sospende" il suo esercizio, e questo si prolunga nel tempo mentre viene giù il mondo, è chiaro che il protagonismo popolare può lasciare il posto a un senso di inutilità e di disincanto. Che, invece, si avverte meno sulle comunali, grazie anche all'elezione diretta e l'assenza di liste bloccate.
Cosa ci sia dentro questo disincanto probabilmente si capirà di qui alle politiche: se una rabbia che qualcuno riuscirà a incanalare o passioni positive che qualcuno riuscirà a risvegliare o invece un pezzo di popolo che si sente ormai fuori dal sistema. Salvini è il grande sconfitto ma la campana suona per tutti.