di Antonio Saccà
C’è qualcosa di atrocemente sbagliato nella situazione filosofica che stiamo vivendo: la perdita radicale dell’Umanesimo. Non se ne ha l’idea e non si ha l’idea di quel che si perde ma si sta perdendo. Non una porzione di territorio. Si sta perdendo l’uomo, dall’alimentazione alla cultura. Non si tratta di essere negatori del proprio tempo, “rimpiangitori” del passato, avversatori del cambiamento e del futuro. È la realtà. Non soltanto ci neghiamo, ma siamo ostili a chi nega che ci inoltriamo nella dissoluzione. Anzi, a parlare di dissoluzione, si viene considerati dissolutori. Ma che sta rimanendo dell’Umanesimo? La cultura classica è sparita insieme alle lingue classiche, la storia e la storia dell’arte, fondamento delle civiltà. La filosofia, per esempio, dovrebbe, per taluni aspetti, immettersi in tutte le modalità scolastiche anche professionali.
Un docente appassionato alla sua disciplina attrae gli studenti. Insegnare non è una gestione burocratica. Questo è Umanesimo. Il valore dell’uomo interiore che si esteriorizza, non il valore dello strumento, del mezzo, della tecnica. Nel momento in cui la tecnica diventa un valore in sé, l’uomo è finito e finisce la civiltà. Esiste la società: agglomerati tecnici utilitaristici, il male radicale del nostro tempo. Stiamo precipitando verso la società abbandonando la civiltà, il percorso opposto. Siamo passati dalle società alle civiltà. Noi stiamo passando dalla civiltà alle società, aggregati utilitaristici. L’esaltazione non della scienza, che è strabiliante, ma della tecnologia, che è la degradazione della scienza, ci sta rovinando. La tecnologia, se all’interno della scienza è meravigliosa, diventa culto di per sé, se perde quell’aspetto cognitivo, indagatore che le conferisce la scienza. Così diventa uno strumento di mera potenza che vale in quanto mera potenza. L’orrore ultimo del nostro tempo (“Io valgo in quanto sono supremo nella potenza tecnica”) è un orrore nell’errore. La potenza scissa dalla qualità dei fini, senza altri fini, può annientare l’uomo qualitativo.
La potenza della tecnica ha come vertice dimostrativo, la distruzione. Sarà vero che per edificare bisogna distruggere, ma non è certo che si edifichi positivamente, e talune distruzioni sono deprimenti in assoluto. È quanto sta accadendo. La tecnica prova e sperimenta la sua idoneità distruttiva e ricostruttiva. Al di sopra o al di sotto del minimo criterio qualitativo (insisto, è la scissione tra potenza tecnica e qualità che rende problematicissima la nostra epoca). Compiamo la separazione tra potenza e qualità della potenza, purché vi sia potenza, la potenza vale in sé, ribadisco. Certo, la capacità di trasformare un alimento in un altro è mostra di potenza tecnica ma fondamentale è se la trasformazione è apprezzabile. Suscitare un uomo-donna, un uomo che partorisce, è portentoso, ma vale o si crea una caoticità psicofisica, a quanto pare il fine di questo chimerismoodierno? Rischiamo di degenerarci orgogliosi del potere tecnologico non messo sotto controllo umanistico.
La tecnica come indicatore prediletto di una società annienta la libertà, la democrazia giacché trascura la qualitàin nome della prestazione efficiente. La razionalità strumentale, rapporto mezzi-fini, trascura la vera questione posta da millenni dalla razionalità sostanziale: quali mezzi per quali fini. Insistere sulla democrazia, sulla libertà: se risulta essenziale lo strumento tecnico e la potenza di esso libertà e democrazia vengono retrocesse, non sono il valore delle società. Il valore della società è la potenza della tecnica che addirittura, cruentissima evenienza, potrebbe attuare la propria potenza anche sulle proprie società, ad esempio provare a convincere la società a subire un farmaco, a scagliarsi contro un nemico, a sopportare mali in nome di mali maggiori, e quant’altro. Questo il male insito nelle esasperate conquiste tecniche, che possono annientare ogni particella dell’individuo.
Occorre una adeguata contrapposizione umanistica. La cultura classica danno l’antitesi del primato della tecnica a-qualitativa, come valore in sé, potenza assolutizzata. L’Umanesimo rivolge alla tecnica la questione decisiva: a qual fine la potenza tecnica, a sperimentare se stessa, a dimostrare il proprio dominio senza mettere in discussione che dominio si vuole imporre? Infatti: stiamo sul gradino avanti il precipizio: esaltare che capacità alterativa siamo riusciti a conquistare senza tenere in rilievo se tale conquista è degenerativa ma vantandola perché conquista. Riusciamo a far partorire un uomo. È una conquista ma è una conquista degradante? Non lo è? Discutiamo. Ecco l’Umanesimo, non dare per scontato che il risultato superiore della tecnica sia di per sé una vittoria da apprezzare. Esistono imprese tecnologiche strabilianti e apprezzabilissime. Questo non esime dal biasimare le pessime e soprattutto che il criterio di giudizio valutativo si fondi sul primato esclusivo della prestazione tecnica.
Che è, al dunque, l’Umanesimo? È la convinzione deliberata di apprezzare l’uomo nella sua interiorità culturale, etica, estetica. Il fuori di sé che proveniva dal sé. Non da ritrovati esterni aggiuntivi. Anche se i ritrovati aggiuntivi (tecnici) sono inventati dall’uomo, possono invalidarlo nell’uso puramente efficientistico, addirittura sostitutivo delle capacità umane, dell’interiorità espressiva. Se un meccanismo mi traduce una lingua straniera, io come io non so la lingua straniera; se uno strumento combinatorio varia un brano musicale con talune varianti di sorprendente bellezza, lo tesso per una combinatoria di parole e ne vengono frasi o versi da ammirare, io come io non sono musicista o poeta. Esistono rischi avversativi, non il superuomo come superamento dell’uomo in se stesso da se stesso ma un superuomo come annientamento dell’uomo sostituito dall’efficientissima tecnologia, insieme ad una potenza degli Stati come supremazia tecnologica che finisce con l’essere supremazia militare.
Una tecnologia che si inorgoglisce di alterare la natura, naturale e umana, non aggiuntiva ma sostitutiva dell’uomo, un uomo che non ha bisogno di interiorità, uno Stato che domina al suo interno e all’esterno con la sua perfezione tecnologica. Il punto di arrivo: la eliminazione dell’interiorità umana. Vi saranno raggiungimenti vertiginosi. Ma se non sono interni all’uomo saranno mortali per l’uomo. Finché è possibile occorre rivitalizzare la civiltà estetica-etica dell’uomo che vale interiormente non per la tecnologia, la quale, senza il valore dell’uomo interiore, è una protesi al nulla. Coscienti di tale precipizio non basta dirci liberi, democratici, occidentalisti ma: che rigoglio interiore vi è nell’uomo europeo, oggi, che rapporto ha con la cultura, con l’arte, che peso ha il valore della tecnologia, utilitaristica e militare che sia, nella sua determinazione di valore, è diventato un feticista della tecnica disposto a ogni esperimento: alimentare, genetico, sessuale come avviene avviene, ad ogni (con)fusionedi popoli, vuole o no salvare la propria civiltà, ammira l’aristocrazia dello spirito o vuole concentrarsi esclusivamente sulla potenza della tecnica.
La tecnologia, come valore assoluto, non è l’insegna di una società che può dirsi civiltà. È soltanto potenza e sperimentazione extra umana. È la clava dei primitivi della Nuova era transgenica. Il ritrovato antiumanistico recentissimo è la negazione culturale tra Europa Occidentale e Russia. Non bastava l’anti Umanesimo esterno. Ma che sta accadendo? Vogliamo svuotare l’uomo, ci siamo stancati di noi stessi o Qualcuno si è stancato dell’uomo? Chi?