Alessandro De Angelis
Se, fino a ieri, il tema erano i Cinque stelle e un governo con (condizione imprescindibile per Draghi) o senza di loro, la novità è che, di fatto, oggi i Cinque stelle non ci sono più. La rissa notturna attorno al ritiro della delegazione di governo, i ministri non disposti a mollare, i parlamentari contro i senatori, la gente che bussa alla porta di Di Maio e si sente rispondere “per ora state lì a frenare i matti”, insomma il “liberi tutti”: è il quadro, tecnicamente, di un’implosione che rende molto meno influente la loro posizione come “interlocutori” (a proposito: Santo Mattarella che non ha sciolto d’impulso il Parlamento per l’impazzimento di questa giostra!).
È vero, il centrodestra ha un’occasione storica: puntare alle urne per colpa altrui e col fronte avversario diviso. Anche se il gioco è sempre complicato, perché per il paese questa crisi incomprensibile è destinata a diventare una colpa della politica, di “quelli che litigano senza risolvere i problemi”. Accade così in un paese nutrito da vent’anni di antipolitica. E comunque anche qui c’è una novità, nel day after. C’è poco da fare, 28 anni dopo la discesa in campo, il più lucido rimane sempre il vecchio Silvio che ha portato Salvini, piegando qualche ritrosia, su una posizione ragionevole consapevole che il leader della Lega non può permettersi il lusso di rompere con l’antico padre padrone del centrodestra se non vuole consegnarsi alla Meloni passando sotto le forche caudine di un fallimento di governo. Dunque il comunicato congiunto in cui si dice non “al voto al voto”, ma la disponibilità ad andare avanti con Draghi senza i Cinque stelle. C’è un veto, che tiene aperta l’eventualità del voto, perché Berlusconi è Berlusconi, uno che quando vede un rigore facile, si tiene la possibilità di tirare e fare goal. Però c’è anche una rinnovata fiducia nel premier perché lo stesso Berlusconi conosce bene (ricordate l’importanza delle aziende nel cedere il passo a Monti?) il contesto, lo spread, i rapporti internazionali. E sa anche che, oggi, la vittoria del centrodestra sarebbe più della Meloni che sua. Si fa presto a dire centrodestra, altra illusione ottica visto che neanche un vertice sono in grado di organizzare. Facciamola breve. Se la decisione di Mario Draghi dipende da un ripristino di razionalità in un sistema politico in crisi, il premier può tranquillamente dare mandato di preparare gli scatoloni. Il suo arrivo è stato espressione di un collasso della politica, il suo congedo lo fa riemergere senza parafulmine. Del collasso fa parte il fatto che nessuno ha la forza di mettere in campo un disegno generale, sia pur elementare. Neppure il Pd, di cui si segnala una eclissi strategica, sull’altrui implosione. Ma proprio poiché nessuno è in grado di dettare le condizioni – e i tempi supplementari concessi dal Colle lo rendono evidente - Draghi arriverà in Parlamento fortissimo mercoledì, avendo di fronte un sistema politico ancora più consunto. Proprio questi tempi supplementari consentono tuttavia di vedere, con maggiore distacco oggi, quale sia la vera posta in gioco di questa crisi, fuori dall’autoreferenzialità del Palazzo: la tutela di una collocazione internazionale e l’interesse nazionale. La prima da non consegnare ai festeggiamenti a base di vodka di Medvedev e Putin che, dopo Johnson, si scolano una bottiglia festeggiando l’Italia e mettono in frigo la prossima aspettando il Midterm. Le preoccupazioni delle cancellerie europee, le parole del ministro ucraino Kuleba e la postura aggressiva dell’ambasciatore russo squadernano il tema dell’indebolimento del fronte delle democrazie. Ed è difficile far comprendere al mondo occidentale come l’inceneritore di Roma o le licenze dei tassisti siano più importanti delle fosse di Bucha e della sfida per un nuovo ordine mondiale. L’interesse nazionale poi è il fil rouge che tiene assieme il comunicato della Cgil (“non è il momento di indebolire il paese”) e il grido di allarme di tutti i sindacati sulla priorità di avere un governo nei marosi di una crisi sociale che rischia di aggravarsi. E ancora: le imprese, le associazioni di categoria, mondi dentro i quali c’è anche la constituency di Salvini a Nord. Il primo dei cinque giorni è segnato dalla rivincita prepotente del principio di realtà sul Palazzo e su quanti su di esso hanno lucrato. Draghi, che fu chiamato a far fronte a un quadro di emergenza, nel suo discorso di fronte al default della politica, sarà inevitabilmente chiamato a rispondere anche ad esse, anche di fronte a un’altra tappa del default politico. Anche il premier è a un bivio, tra orgoglio e interesse nazionale, Palazzo e realtà, doveri di un civil servant e rifiuto della politica politicante, congedo e nuovo inizio. Un discorso si può calibrare in mille modi: saluto aristocratico, resa, sfida, presa d’atto che la ragnatela in cui è scivolato è stata più forte di lui, o denuncia, missione, riproposizione di sé come figura forte di una terzietà e di una autonoma visione dell’interesse internazionale e nazionale. Per poi vedere chi sceglie, si sarebbe detto una volta, la crisi e l’avventura. Il problema adesso è più grande di Conte. È grande come l’Italia. E dipenderà ancora da lui.