di Maurizio Guaitoli
Chi ha fatto più danni al Regno Unito tra la Brexit e Boris Johnson? Diciamo che il titolo di campione dello sfascio, se così si può dire, spetta di diritto a entrambi “ex aequo”. Solo che la Brexit non è venuta da sola ma ha viaggiato a lungo sulle gambe di autorevoli politici conservatori, come i primi ministri David Cameron, Theresa May e Boris Johnson, gravemente responsabili di aver venduto alla loro opinione pubblica sogni e illusioni anziché solide realtà. Ma, nel caso di BoJo (come il premier dimissionario viene popolarmente chiamato) all’istrionismo si è tragicamente sommata l’attitudine a mentire sia sulle condotte illecite del proprio esecutivo, sia sul piano della responsabilità personale, vedi i festini proibiti a Downing Street in tempi di lockdown da pandemia. A partire dal 5 luglio, il Governo Johnson ha iniziato a perdere pezzi, con le dimissioni del cancelliere dello Scacchiere (responsabile per l’economia e le finanze) e del ministro della Salute.
Appena due giorni dopo, a dimettersi (o minacciare di farlo) sono stati ben 50 membri dello stesso Governo, costringendo così BoJo a fare un passo indietro. Al solito, la primissima reazione del primo ministro è stata di provare a resistere a oltranza, trincerandosi dietro l’assurda motivazione di aver ricevuto il suo mandato da 14 milioni di elettori inglesi che, invece, a norma di Costituzione, “eleggono i parlamenti e non i presidenti”, come ricorda The Economist nel suo impietoso doppio editoriale “The wreckage he leaves behind” (“La rovina che si lascia alle spalle”) e “The toxicity of Boris Johnson”, che non necessita di traduzione.
Allo stesso modo, la sua intenzione di rivolgersi in ipotesi alla Regina per indire elezioni anticipate ha rappresentato una mossa altrettanto disperata, che si colloca al limite della correttezza costituzionale. L’ultima, inutile linea di resistenza di Johnson si è dissolta con il rifiuto da parte dei suoi colleghi di accogliere la sua richiesta di rimanere in carica per la gestione degli affari correnti: questo perché, nota The Economist, “un premier fallito non può pretendere di essere il curatore fallimentare del suo stesso Governo”.
Ma chiunque succederà a Johnson erediterà un compito immane per rimettere in sesto il Paese, dovendo fronteggiare emergenze quali: un’inflazione in salita all’11 percento prevista in autunno; la svalutazione della sterlina nei confronti del dollaro; un gigantesco arretrato nella sanità pubblica, con più di 4 milioni di persone in attesa di un intervento chirurgico; la previsione di una bassa crescita, inferiore alla media dei Paesi della Ue. Chiunque del campo conservatore prenderà il posto del premier dimissionario a Downing Street, dovrà in primo luogo interrogarsi sulla questione di fondo che riguarda la capacità di governare il Paese da parte del Partito Tory.
Del resto, dodici anni di seguito al potere, con quattro elezioni generali e un terzo primo ministro prossimamente fuori dai giochi, rende manifesto il logoramento dei conservatori e la loro residua, scarsa capacità di parlare ai cittadini per convincerli ancora una volta a stare dalla loro parte, in un confronto che li vedrà quasi certamente soccombenti nella sfida nei collegi elettorali del Nord come del Sud, dove si vanno rafforzando il Labour e i liberali. Del resto, come dice il proverbio, “Chi è causa del suo mal..”, tenuto conto che i Tories, e BoJo in particolare, nel loro modo ondivago (e decisamente bipolare!) di governare hanno cercato di tenere assieme il Diavolo della spesa facile, per il rafforzamento del Welfare e la detassazione di imprese e famiglie, con l’Acquasantiera del rigore di bilancio e il contrasto all’immigrazione irregolare, rafforzando per di più una sconsiderata politica dei visti per i cittadini della Ue, divenuti stranieri a pieno titolo dopo la Brexit.
Per non parlare dell’iniziativa, censurata dalla Corte europea per i diritti umani, di dislocare in Rwanda i richiedenti asilo che abbiano presentato domanda in Inghilterra. Altra mina vagante per i conservatori è rappresentata dallo status dell’Irlanda del Nord (che continua ad appartenere alla Ue) contemplato negli accordi per la Brexit, e che la destra più conservatrice vorrebbe abolire. Eppure, mai come ora l’Inghilterra avrebbe bisogno di un conservatorismo illuminato, che faccia appello alla sua migliore tradizione per venire a capo di crisi sociali ed economiche come quelle in atto, in cui i redditi delle famiglie subiranno una forte contrazione per effetto di un’inflazione che viaggia verso la doppia cifra, accompagnandosi per di più con un netto rallentamento della crescita economica, destinati entrambi questi due fenomeni a confluire nello scenario più cupo della stagflazione.
La verità amara, per i conservatori che sono stati i più convinti sostenitori dell’uscita del Regno Unito dalla Ue, è di prendere atto che la Brexit, almeno in questi ultimi cinque anni, ha visto crollare investimenti e scambi commerciali con il continente e non il viceversa. Esattamente il contrario di quanto sostenuto nel 2016 dalla leadership Tory secondo cui, una volta liberatasi dai vincoli di Bruxelles, l’Inghilterra avrebbe visto aumentare la sua ricchezza complessiva e prodotto un salto di qualità nel suo interscambio commerciale con il resto del mondo.
Oggi, la propaganda dei conservatori insiste ancora a ignorare l’evidenza, concentrando il dibattito sulla riduzione della pressione fiscale e sulla revisione dell’accordo sulla Brexit, per quanto riguarda lo status atipico dell’Irlanda del Nord, che pone non pochi problemi a Londra per quanto riguarda i dazi e il passaggio oltrefrontiera delle merci prodotte sull’isola. Al prossimo primo ministro spetterà il difficile compito di coniugare l’aumento vertiginoso del costo della vita con le esigenze di una crescita economica equilibrata, che esige un intervento strutturale da parte delle finanze pubbliche inglesi, già oggi in seria difficoltà.
Politicamente, pertanto, non sarà sufficiente dare la colpa di tutti i guai che sta attraversando il Regno Unito alla guerra in Ucraina e all’aumento stratosferico dei prezzi dell’energia, dato che, ancor prima di questi dolorosi eventi, i conservatori avrebbero dovuto giustificarsi in merito alle loro promesse da marinaio, per cui la Brexit sarebbe stata una benedizione per il rilancio economico del Paese. Ben al contrario, i fatti ante il 24 febbraio 2022 dimostravano già chiaramente che sia il livello dell’inflazione, sia il tasso di crescita economica erano, rispettivamente, al di sopra e al di sotto della media dell’eurozona, con la sterlina che per di più perdeva valore nei confronti dell’area dell’eurodollaro.
Esponenti di spicco dei Tories, come l’ex cancelliere Kenneth Clark, non fanno mistero della loro avversione a misure demagogiche (definite un “nonsense populista”), come ridurre le tasse sui redditi, alleggerendo la corporation tax e i contributi previdenziali per le imprese. Anche qui, in Inghilterra come da noi, la strada è stretta e obbligata, per qualunque governo in carica. Ovvero: per tenere in ordine i conti pubblici, i tagli di tasse debbono essere compensati con una diminuzione della spesa pubblica in aree ipersensibili d’intervento dello Stato (quali salute, difesa, assistenza sociale e pensioni, pubblica amministrazione), oppure con emissioni di nuovi titoli del debito pubblico. Oggi, invece della serietà e della coerenza necessaria per ammettere le proprie colpe e presentarsi con un programma coraggioso di governo agli elettori, i responsabili conservatori dell’attuale disastro fanno campagna elettorale come se, finora, al governo ci fosse stato qualcun altro, e non loro stessi. Vi ricorda qualcosa?