Di Fabio Martini
La storia ce lo suggerisce: nella nostra Italia i destabilizzatori dell'ordine costituito che lanciano da fuori le loro sfide al Palazzo, incontrano spesso il favore popolare, ma quelli che lo hanno fatto, terremotando governi dei quali facevano parte, sono andati incontro a delusioni brucianti. Chissà se lo sanno i patron dei Cinque stelle: in queste ore comprendono che tornare giovani e tosti come ai tempi della loro "bohème", è un' impresa complicata assai e tuttavia per non perdere troppi voti alle prossime Politiche, hanno pensato che tanto vale provare con il vecchio copione. Fare la faccia feroce, tirarsi fuori dalla "casta governativa". E' indubbiamente questo il ragionamento politico che sta dietro lo smarcamento concordato da Giuseppe Conte con suoi: se torniamo duri e puri, magari salviamo la ghirba.
Certo, i leader degni di questo nome sono quelli capaci di far coincidere interesse di parte e interesse generale, ma è pur vero che tutti i partiti fanno i propri calcoli più o meno cinici e quindi l'algebra elettoralistica non è una novità. Ma in questo caso c'è una complicazione in più: di questi tempi gli italiani non sono di buon umore e si capisce che in una fase di smarrimento, gli ansiogeni sono destinati a navigare controvento. E d'altra parte destabilizzare, stando nel Palazzo, è sempre una scommessa, tanto è vero che anche in stagioni meno deprimenti dell'attuale, quella postura non ha portato bene.
Nella storia recente del Paese c'è un precedente che ricorda le vicende più recenti: il logoramento al quale i partiti della Sinistra radicale (Rifondazione comunista, il Pdci, ma anche i Verdi) sottoposero tra il 2006 e il 2008 il governo guidato da Romano Prodi. Tutti ricordano il primo tempo di quella stagione, perché è diventato proverbiale il comportamento di quei partiti che, pur avendo ministri dell'Esecutivo, parteciparono ad una manifestazione indetta contro il proprio governo. Una contraddizione in purezza e per l'appunto indimenticabile.
Ma in quella storia c'è un secondo tempo che ricordano soltanto i diretti interessati e pochi altri: alle elezioni che nella primavera 2008 si resero necessarie per effetto del logoramento da loro esercitato, quei partiti si presentarono uniti sotto le insegne della Sinistra Arcobaleno e ottennero un risultato sbalorditivo: zero eletti. Neanche uno. Una punizione memorabile per i protagonisti del logoramento e anche per l'esecutore materiale dell'affossamento, Clemente Mastella, che fu talmente isolato che non riuscì addirittura a presentare le liste. Vale la pena rileggerla quella storia, che potrebbe risultare esemplare per le sue possibili vittime.
Nel 2006 l' eterogenea Unione guidata da Romano Prodi vince per un soffio le elezioni e le forze della sinistra radicale ottengono risultati rotondi: Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti tocca quota 5,8%, i Comunisti italiani di Armando Cossutta si attestano al 2,3%, i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio ottengono il 2,1%, Il totale corrisponde ad una percentuale ragguardevole, il 10,2%, che equivale a 3 milioni e ottocentomila italiani che hanno segnato con la "ics" i simboli di quelle liste. I tre partiti ottengono altrettanti ministeri, la Sicurezza sociale per il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, i Trasporti per Alessandro Bianchi, l'Ambiente per Pecoraro Scanio.
L'ala sinistra ottiene risultati imponenti: il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, l'abolizione dello scalone Maroni sulle pensioni. E invece, con il riflesso politico-culturale di chi pensa che stare al governo sia un colpa e non un'opportunità, quei partiti non incassano quei risultati, non ne se vantano, ma schiumano nuova indignazione e aderiscono ad una manifestazione contro il governo. Fausto Bertinotti, da presidente della Camera, arriva a paragonare Prodi al «poeta morente». Fa il colto, citando Cardarelli, ma con un'eleganza istituzionale che è troppo evidente e infatti Rifondazione rincula.
Ma l'azione di logoramento ormai è irreversibile. A far cadere materialmente il governo è una piccola "coalizione" di trotzkisti, neo-democristiani, mastelliani. A quel punto si precipita verso elezioni. Tutta l'area alla sinistra del Pd si unisce in una lista unica, la Sinistra Arcobaleno. La legge elettorale fissa la soglia per entrare in Parlamento al 4 per cento, i sondaggi sono incoraggianti: non scendono mai sotto il 5% e uno arriva a quotare la federazione dei "sinistri" quasi al 10 per cento.
La sera del 14 aprile 2008 la sorpresa è enorme: l'Arcobaleno si ferma al 3,1% e dunque non scatta neppure un eletto. Il precipizio è descritto dai numeri: dei 3 milioni e ottocentomila elettori di cinque anni prima, se ne sono ripresentati alle urne un milione e centomila, facendo cadere la percentuale dal 10,2% dei tre divisi al 3,1%. Un risultato disastroso che pone fine alla carriera politica di Fausto Bertinotti, di Oliviero Diliberto e di Alfonso Pecoraro Scanio. Ma quel flop disastroso diventa un punto di non ritorno perché nessuno dei leader si fa carico di quel lavoro autocritico che da solo può garantire un riscatto.
Va male anche a Clemente Mastella che col suo Udeur era entrato nel governo Prodi come Ministro di Grazia e Giustizia. Le inchieste su alcuni suoi familiari lo avevano prostrato ma la decisione di ritirare l'appoggio a Prodi era stato un "di più", secondo qualcuno suggerito dal centrodestra. Certo, Mastella ci perse (momentaneamente) la faccia e infatti si scoprì rifiutato come alleato e non potè presentarsi alle elezioni.
Destabilizzare quando si è chiamati dagli elettori a farsi valere al governo non porta bene, ma c'è qualcosa di più. La politica, a differenza di chi la rappresenta sempre e comunque come un sabba della nequizia, è fatta di generosità e cinismo, idee e ideologie, respiro e grettezza e dunque come tutte le espressioni umane ha i suoi "luoghi", le sue coazioni a ripetere. Una di queste si manifesta nei momenti critici di leader e partiti: quando le smorfie e gli errori deturpano il viso, ci si illude di poter tornare giovani, di apparire giusti e idealisti come alle origini.
Ma ce lo ha raccontato Oscar Wilde: l'eterna giovinezza da stipulare in un patto col demonio purtroppo non esiste. In pubblico si può apparire ancora per un po' giovani e belli, ma come nel ritratto di Dorian Gray confinato in soffitta, la decadenza fisica e morale avanza e ad un certo punto presenta il conto. Lo dice la storia: leader e partiti riescono ad essere coerenti con sé stessi, quando sanno aggiornarsi, non quando si illudono di poter resuscitare stagioni che non tornano mai eguali a sé stesse.