di Alessandro De Angelis
Mai si era vista una campagna elettorale sotto gli ombrelloni, degno corollario della sindrome da Papeete gialloverde, con l’Italia al voto il 25 settembre, grazie anche alla sensibilità della comunità ebraica, che non considera le urne lesive del suo capodanno. Mentre gli affari correnti saranno svolti da Draghi, costretto senza poteri ad affrontare quelle emergenze che avrebbero richiesto un governo in carica. A proposito delle quali il capo dello Stato ha pronunciato l’aggettivo “indispensabili” nel suo breve discorso in cui c’è una denuncia implicita verso chi ha interrotto l’esperienza. Ripetuto quattro volte, citando Pnrr, crisi sociale, sostegno all’Ucraina e tutela della collocazione internazionale. Esattamente cioè quei quattro punti presentati da Draghi nel voto di fiducia: i fondamentali del paese, in questo momento storico.
È un unicum, in un contesto già eccezionale, il cui effetto sarà una campagna elettorale “corta” (di fatto solo settembre). E segnata da una torsione leaderistica. Non solo per la durata breve ma perché il combinato disposto di taglio dei parlamentari e Rosatellum imprime una torsione maggioritaria nei collegi, dove i candidati, vista la dimensione, faranno fatica a far conoscere a tutti la loro faccia. Si vota dunque per quei leader che, in questo momento, hanno “pieni poteri” sulle liste, da presentare ad agosto, il che non consente grandi giochi politici interni e rende possibili le vendette senza appello. E dunque la formazione di gruppi del Capo, espressione estrema della torsione oligarchica della democrazia italiana grazie alle liste bloccate. O ti allinei o te ne vai.
Il centrodestra ha la forza evocativa della sua storia, perché nonostante tutto, e questo tutto non è poco, è comunque una coalizione che c’è stata, ha un vissuto nel percepito. Anche se politicamente parlando non ha una proposta che non sia l’ansia di vittoria e la sete di potere, vero collante. Perché storico è anche l’obiettivo che sente a portata di mano: la conquista della maggioranza dei seggi che garantirebbe, d’un colpo, il governo, la maggioranza per cambiare la Costituzione in senso “presidenzialista” e, potenzialmente, una maggioranza per eleggere il capo dello Stato se Mattarella dovesse mai mollare, ipotesi per fortuna da escludere per un presidente ancora perfettamente pimpante e vigoroso.
È l’Occasione, che spiega l’allineamento di Berlusconi: un mastice più grande degli odi personali tra una leader ambiziosa anche se non pronta alla grande prova come Giorgia Meloni, e un leader rancoroso come Salvini alla ricerca di una rivalsa sulla “ducetta” e un leader ombra di ciò che fu che, in balia di una deriva estremista, perde Gelmini, Brunetta, forse anche Mara Carfagna, espressione di una storia che sentono tradita. E già si capisce come la brama di potere non sia supportata da una proposta di governo perché – lasciamo stare il tema del programma, della collocazione internazionale tra Orban e Putin – i due baldi leader del centrodestra di governo che fu già sono all’opera per studiare qualche meccanismo da azzeccagarbugli per impedire che la Meloni, pur arrivando prima nella coalizione, vada a palazzo Chigi (leggi qui Pietro Salvatori). E rischiano, dopo essersi consegnati a lei terremotando Draghi e, dandole implicitamente ragione, di consegnarle un altro volano di consensi.
Il centrosinistra invece è un cantiere frutto della necessità più che della virtù, perché il suo sistema potenziale di alleanze nasce da una sconfitta strategica e non da un’iniziativa politica. Finalmente Enrico Letta ha dichiarato “impossibile l’alleanza con chi ha fatto cadere Draghi”. Ce ne è voluta, ma l’ha detto: un crescendo di giornata iniziato con un prudente “è cambiato il paradigma”, proseguito con un “difficile ricomporre”, fino al game over. Parole che fissano un punto di non ritorno anche verso un gruppo dirigente piuttosto avvezzo a metabolizzare tutto, in nome della tattica, anche una ferita vissuta nel paese come una vergogna nazionale. Atteggiamento che è stata una delle cause del patatrac. Si intravede, nelle intenzioni, il recupero di una vocazione maggioritaria che necessita di slancio, iniziativa, postura di un partito che offre una grande proposta al paese. E di una agenda oltre l’effetto Draghi, che in prospettiva rischia di evaporare senza Draghi in campo, eventualità che non c’è e non ci sarà. E, per inciso, a sua volta l’ex premier deve a Mattarella la gratitudine per un’uscita di scena da martire col consenso popolare, e non da capitano che abbandona la nave, con un aristocratico distacco.
C’è il problema di capire cosa fare dello spazio al centro. Se puntare alla conquista o mettere in campo iniziative per organizzare un’area moderata in grado di dare una casa a quegli elettori del centrodestra sfrattati dalla deriva estremista di Berlusconi, capace anche di dire che Draghi era stanco e se ne è voluto andare, proprio come Conte che disse “Draghi lo avrei proposto per la commissione europea ma è stanco”, a proposito di manipolazioni demolitorie. Ai bei tempi dell’Ulivo l’allora gruppo dirigente di Ds, d’intesa con Franco Marini, lavorò per la formazione della Margherita, trasformando i tanti galli del pollaio centrista in un soggetto politico con cui costruire un’alleanza e una proposta. Veltroni lo conquistò. Questo passaggio farà bene al Pd perché, comunque vada, lo costringe a riconnettersi col paese. Draghi, parafulmine delle fragilità di tutti, non c’è più. C’è il paese e ci sono i partiti. Auguri.