di Gianpaolo Manzella
Se mettiamo insieme recenti pezzi di informazione sono evidenti la rivoluzione in atto nel mercato globale dei semiconduttori e le sue ragioni.
C’è, innanzitutto, la sempre più chiara rilevanza strategica dei chips, emersa con il propagarsi della pandemia, e le conseguenti disruptions nelle forniture, e riaffermata con la guerra in Ucraina, che ha messo in evidenza la stretta ‘dipendenza’ degli eserciti dai semiconduttori. Tutti, potrebbe dirsi, hanno avvertito la centralità dei chips rispetto ai processi industriali (e ben oltre) e la complessità, spesso fragile, delle loro "catene del valore".
Si aggiunge a questo la rilevanza geopolitica del tema. Solo trent'anni fa, il 37% di semiconduttori del mondo era prodotto negli Stati Uniti, mentre oggi questa percentuale è scesa al 12%. L'80% della produzione mondiale si è spostata in Asia, dove Taiwan gioca una parte da leader (con tutte le implicazioni del caso in termini di equilibri politici), mentre all’Europa resta una parte residuale ed in discesa, dal 24% del 2000 all’attuale 8%.
Se questo quadro va completato con alcuni elementi di ‘bilanciamento’ – a partire dalla leadership europea nei macchinari per costruire i semiconduttori e quella statunitense nella loro progettazione – rimane il fatto di un assetto squilibrato. Tanto più all’avvio di una nuova era, i cui termini sono ben catturati da una constatazione di Pat Gelsinger, alla guida di Intel: “come la localizzazione dei pozzi di petrolio ha definito la geopolitica negli scorsi cinque decenni, sarà la localizzazione delle nuove fabbriche di semiconduttori a definirla nei prossimi cinque.”
È questo il contesto in cui siamo ed è questo che spiega l'attivismo sul tema.
È proprio alla luce dello squilibrio esistente che in Europa si è adottato il Chips Act e si avviano, sotto l’egida della Commissione, collaborazioni industriali e progetti di interesse comune sul tema; mentre negli Stati Uniti è di questi giorni l'approvazione bipartisan del CHIPS-Plus, un piano da 52 miliardi di dollari a sostegno della produzione di chips made in USA.
In un’evoluzione parallela, si sta investendo nella produzione: sia in Europa, sia negli Stati Uniti. E così Intel, nell’ambito di un investimento europeo di circa 17 miliardi di Euro, lavora alla creazione di uno stabilimento a Magdeburgo, in Germania e solo pochi giorni fa STMicroelectronics e GlobalFoundries ne hanno annunciato uno di 5.7 miliardi a Crolles, in Francia. Tutto questo mentre in Ohio la stessa Intel sta costruendo due Giga Factories, ognuna dal valore di 10 miliardi di dollari.
Stiamo assistendo, insomma, ad una vera e propria corsa a tre, in cui Europa e Stati Uniti provano a riequilibrare “il pendolo” di un mercato in cui l’Asia gode di una posizione ad oggi dominante. Ma non sarà un processo breve, né facile. Stando alle stime del capo di Intel, se le contromisure adottate dovessero rivelarsi efficaci, tra qualche anno l’Europa potrebbe coprire il 20% della produzione mondiale, gli Stati Uniti il 30% mentre all’Asia resterebbe la rilevatissima quota del 50%.
È bene che questi scenari siano chiari anche dalla prospettiva italiana. La centralità dei semiconduttori, di oggi e futura, e l’attivismo europeo sul punto dicono che non possiamo permetterci di essere fuori da questa corsa. Ne abbiamo tutte le potenzialità: realtà all’avanguardia nella produzione dei semiconduttori come STMicroelectronics; centri di ricerca in grado di contribuire allo sviluppo del settore; risorse disponibili grazie a strumenti come il Next Generation EU, il Fondo IPCEI e finanziamenti della Bei, come quello di 600 milioni recentemente concesso proprio alla STMicroelectronics per le attività di ricerca condotte negli stabilimenti francesi e italiani.
È ora necessaria un’attivazione ‘di sistema’, su più fronti.
Su quello europeo, innanzitutto, in cui potrebbe emergere l’insufficienza di una impostazione basata sulla sola esenzione dalle regole sugli aiuti di Stato e rendersi necessario un impegno finanziario diretto.
Sul fronte nazionale, dove siamo chiamati ad utilizzare al meglio sia le risorse di Next Generation, sia quelle specificamente previste dal D.L. 17 2022 (150 milioni di Euro nel 2022 e 500 dal 2023 al 2030) con un’azione che va focalizzata su ricerca e design e, in parallelo, sull’attrazione di grandi investimenti.
Vi è, infine, un ruolo che può essere svolto sul fronte regionale, dato che i fondi della politica di coesione possono dare ‘gambe territoriali’ più forti alle realtà industriali e della ricerca esistenti: a partire dall’insediamento catanese della STMicroelectronics, il più grande polo avanzato di innovazione nel Mezzogiorno del Paese.