di Ugo Magri
Le parti si sono invertite. Prima era Salvini che giocava in difesa e Meloni all’attacco, ora l’esatto contrario: Matteo, che non ha più nulla da perdere e soltanto da guadagnare, spara allegramente le sue cartucce propagandistiche; mentre Giorgia, nel ruolo di strafavorita per l’Oscar e con tutti i riflettori addosso, è costretta ad assumere la postura da donna di Stato, in pena per le sorti del paese. Finché governava Draghi, era lei a lucrare sulla moderazione del Cavaliere e del Capitano per ramazzare voti; le piaceva vincere facile. Ma liberatisi di Super Mario quei due le rendono, come volgarmente si dice, pan per focaccia e adesso scaricano l’onere della responsabilità interamente sulla Meloni. La quale, prima ancora di entrare a Palazzo Chigi, già deve rincorrere gli alleati, tenerli a bada, frenarli, minacciarli, piantare paletti, troncare e sopire, pretendere serietà: fatica tanto improba quanto inutile.
Cavaliere e Capitano sono, per natura, mine vaganti. Hanno un “ego” fuori controllo, incompatibile con qualunque gioco di squadra, specie se chi la guida ha fatto le scarpe a entrambi usando gli stessi spregiudicati metodi che oggi rinfaccia a loro. Non si faranno scrupolo di crearle difficoltà, tendere trappoloni sarà il loro sport preferito. Occhio per occhio, demagogia per demagogia. Cosa importa a Silvio chi finanzierà le pensioni minime a 1000 euro, e il veterinario per chi possiede un cane o un gatto, e le dentiere gratis per tutti, dove si troveranno questi denari, con che coperture di bilancio, al posto di quali altre spese? Saranno cavoli della Meloni.
Idem Matteo: perché dovrebbe rinunciare all’adorata “flat tax“, alla “pace fiscale”, alla rottamazione delle cartelle esattoriali, alla promessa di mettere 50 miliardi pubblici nelle tasche degli italiani? Meloni sa che, se desse retta a Salvini, finiremmo zampe per aria. Prudentemente immagina tre aliquote Irpef, una sola è poco; stop alle cartelle esattoriali purché si paghi almeno l’imposta evasa; niente scostamenti di bilancio che poi toccherebbe a lei ripianare. Per cui decisivo sarà chi mettere all’Economia: se un cauto ragioniere che prima di spendere fa i suoi conticini, ovvero qualche mago della finanza creativa (intorno alla Lega ne bazzicano una quantità).
Guarda caso, Salvini pretende che la lista dei ministri sia resa pubblica prima delle elezioni, e si intuisce il perché. Se i nomi venissero decisi dopo il voto, potrebbe ripetersi un “caso Savona”, quando Sergio Mattarella rifiutò la nomina all’Economia dell’attuale presidente Consob troppo euroscettico. Gli “Ital-exit” verrebbero banditi da Via XX Settembre: così pure i putinisti si sognerebbero gli Esteri, la Difesa e quei dicasteri che a Vladimir farebbero gola; i no-vax verrebbero tenuti alla larga dalla Sanità, i provocatori lontani dal Viminale e via depennando. Salvini gioca d’anticipo sulla lista dei ministri per farla consacrare dal popolo e imporla al capo dello Stato qualunque nome contenga. Meloni invece, che ha già i suoi matti, non mostra la stessa dannata fretta di imbarcarne altri nel futuro governo e forse si augura che il Colle le bocci qualche nome tra i più scalmanati.
Nulla a confronto con la “pratica Berlusconi”. A Silvio è sfuggita la prima carica dello Stato, vorrà tentare con la seconda e presiedere il Senato da cui lo cacciarono nove anni fa. Lui pudicamente nega; ma all’alba della nuova legislatura, se vincerà il centrodestra, quella poltrona dovranno offrirgliela; e il Nostro, come usa in questi casi, non potrà esimersi dall’accettare. Diventerebbe presidente supplente della Repubblica per cui, qualora Mattarella fosse impedito, il “pregiudicato” Berlusconi ne prenderebbe il posto come capo dello Stato e come capo della magistratura, una rivincita sensazionale. Per Meloni sarebbe la maniera di tenerlo occupato; però a che prezzo. Trasformerebbe le istituzioni in un Circo Medrano perché Silvio è un acrobata, un fachiro, un incantatore di serpenti, quando è in vena un esilarante clown; si lancerebbe in esercizi di acrobazia politica, da lasciare col fiato sospeso; metterebbe sotto stress l’equilibrio dei poteri; da Palazzo Madama farebbe il controcanto al Quirinale. Diventerebbe un fattore di turbativa politica e di confusione istituzionale laddove sul Colle, se diventasse premier, Giorgia avrebbe bisogno di qualche traghettatore (non per nulla avrebbe voluto metterci Draghi).
Nemmeno il tempo di prendere fiato che ci saranno centinaia di grand commis da sistemare, cadreghe di assoluta libidine, di autentico privilegio: la Banca d’Italia, i vertici della Polizia, i servizi segreti, le grandi aziende partecipate incominciando dall’Eni, più la madre di tutte le lottizzazioni che è Mamma Rai. Molti aspiranti alle poltrone di colpo si scoprono meloniani perché noi siamo fatti così, ci piace stare col vincitore. Ma quando si spartirà il malloppo vedremo scene selvagge, da fare invidia alla giungla. Giorgia terrà il punto, Cav e Cap non saranno da meno. Con quei due sulla scena, e finché ci saranno, Meloni non potrà stare serena. Vivremo sulle montagne russe, costantemente sull’orlo della crisi. Chi teme di annoiarsi stia tranquillo: con la Destra al governo è un rischio, forse l’unico, che non correremo.