di Pietro Salvatori
Giorgia Meloni vuole evitare quello che in Fratelli d’Italia qualcuno chiama “l’effetto gialloverde”. È la preoccupazione di cui si ragiona in questi giorni in via della scrofa, ricordando l’improvvisazione con la quale Lega e Movimento 5 stelle sondarono la candidatura di Giulio Sapelli per Palazzo Chigi facendosela bruciare in un battibaleno e si incartarono con il Quirinale proponendo una lista dei ministri che consegnava le chiavi della macchina a Paolo Savona.
È per questo che la leader di Fdi ha manifestato a più di un interlocutore una serie di dubbi sull’eventualità che Matteo Salvini vada al Viminale. Meloni ha la consapevolezza dell’estrema diffidenza con la quale un suo governo verrebbe accolto sia in Europa e nelle cancellerie degli alleati occidentali sia dai grandi investitori internazionali. “Dobbiamo essere credibili, ci giochiamo tutto su questo”, è il ragionamento fatto ad alcuni dirigenti del partito. A preoccuparla del possibile approdo del segretario della Lega al ministero dell’Interno non è tanto la linea politica, che ricalca in gran parte quella del partito, ma il fatto che uno dei dicasteri più importanti possa diventare nella sostanza la piattaforma dalla quale l’alleato orchestri la sua campagna mediatica, caratterizzata dalla ben nota strategia di annunci ad effetto e iniziative estemporanee per cercare di orientare l’agenda quotidiana. “Per quella casella Giorgia preferirebbe Urso”, dice un colonnello di Fdi, spiegando che non c’è nessun veto su nessuno, ma è semplicemente in corso una valutazione su come affinare la migliore squadra possibile. L’attuale presidente del Copasir non disdegnerebbe affatto il trasloco al Viminale, ma è presto per parlarne. Anche perché di fronte a un aut aut da parte di Salvini diventerebbe difficile dirgli di no. E dunque il segretario leghista chiede che si indichino alcuni ministri già prima del voto per fissare dei paletti ed evitare che chi arriverà primo - ovvero Fratelli d’Italia, secondo tutti i sondaggi - faccia la parte del leone nella definizione della squadra, facendo pesare il peso del distacco numerico dagli alleati. È un continuo balletto in cui i due danzano, incrociandosi qui e là e sfidandosi in brevi bracci di ferro, testando l’uno quanto faccia sul serio l’altro.
Un niet più rotondo sembra arrivare su un esponente leghista alla Farnesina - casella ambita da Antonio Tajani - perché sulla collocazione atlantica Meloni non transige. Dice Giovanbattista Fazzolari che nel programma due sono i punti “non discutibili: il presidenzialismo e la collocazione internazionale dell’Italia”. Il senatore è anche uno dei due delegati del partito al tavolo del programma, che nel tardo pomeriggio ha il suo primo round negoziale, poco più di un brainstorming di idee, ma nel quale si è già delineato quello che è un nodo politico.
“Serve chiarezza sui punti fondamentali, sulla cornice, su tutto il resto, su un livello di dettaglio più approfondito, su misure più puntuali, a guidare la nave sarà chi si afferma nelle urne”, spiega Fazzolari.
Quando a via della Scrofa hanno letto che Salvini vuole nero su bianco la riforma delle pensioni con Quota 41 e la flat tax al 15% sono impalliditi: “Ma si rende conto che se promettiamo cose del genere chi ci ha votato se le aspetterà in legge di bilancio?”. Anche solo una prima messa a terra delle due misure richiederebbe un numero imprecisato di miliardi da finanziare in deficit, al netto del costo di una manovra d’autunno che già non si presenta leggera. "Al tavolo del programma la Lega chiederà agli alleati di firmare alcuni accordi per essere omogenei dopo una eventuale vittoria”.
Ecco qui che si sbatte sulla dottrina Fazzolari. Da un lato una cornice, un orizzonte nel quale muoversi per avere le mani relativamente libere e flessibili una volta conquistato il governo, dall’altro una serie di paletti precisi sui quali inchiodare gli alleati. Oltre all’abolizione della legge Fornero e dell’aliquota unica la Lega batte sull’autonomia, che più di qualche dubbio lo ha sempre sollevato nel partito meloniano, e il taglio dell’Iva sui beni di prima necessità. Una lista della spesa che prefigura la messa in conto di un ingentissimo deficit da contrattare con Bruxelles e che non sarebbe un biglietto da visita ideale per un’eventuale governo Meloni, già guardata con sospetto, nei confronti degli alleati europei. “Un conto è un impegno serio per ridurre le tasse, un altro è fissare già oggi come al netto di tutte le variabili possibili”, concorda Marco Rizzone, sherpa del programma per Coraggio Italia. “È la prima riunione, siamo ancora all’anno zero”, raffredda le fughe in avanti Fazzolari. Un accordo si troverà, ma che fatica.