di Luca Bianco
Per capire chi è Niccolò Ghedini non serve andare su Wikipedia. Basta scrivere nome e cognome su YouTube. C’è così tanto materiale – così tanto colore direbbe Filippo Ceccarelli – da poterci scrivere una biografia. Condivideva lo stesso nome proprio con Machiavelli. Anche lui, come il suo omonimo di cinquecento anni prima, consigliere di un “Principe”. Fin da quando Ghedini era un ragazzo, 28 anni, il suo maestro, l’avvocato Piero Longo, anche lui storico legale del Cav, diceva di lui: “Tenete a mente il nome di questo ragazzo. Si chiama Niccolò Ghedini”. Longo lo ripeteva più volte ai colleghi nei corridoi del tribunale di Padova: “Farà strada”.
L’instancabile ma va là. Quattro novembre 2010. Una delle serate più iconiche, nel bene o nel male, della Seconda Repubblica, dell’epopea berlusconiana. È un giovedì sera. E il giovedì sera, chi in quegli anni segue la politica quotidianamente è sintonizzato su Rai 2 per gustarsi la puntata del talk Annozero. Berlusconi è in piena crisi politica: Gianfranco Fini ha da poco costituito i gruppi parlamentari ribelli di Futuro e Libertà che di lì a poco, i primi di dicembre, avrebbero quasi fatto cadere il quarto governo del Cav. E anche in crisi giudiziaria: Silvio è coinvolto in più procedimenti contemporaneamente, su Wikipedia è nata un’apposita pagina denominata “Procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi”. Per Ghedini il lavoro è tanto. Non solo quelle tre o quattro udienze a settimana, ma si ritrova anche a difendere il suo leader in televisione, in veste di onorevole del Popolo della Libertà. In studio da Santoro, mattatore abituale dell’allora premier – di lui Ghedini dirà: “Fa una trasmissione faziosa. Ma mi piace. Perché è chiaramente di parte. Non bara come Floris” – sono ospiti oltre al consuetudinario Marco Travaglio anche la direttrice dell’Unità Concita De Gregorio, il leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro – su di lui, ancora Ghedini: “Non lo difenderei. Le sue posizioni umane su Berlusconi sono troppo forti e per me Berlusconi è un amico, non potrei mai farlo” – e un pubblico pronto ad intervenire in trasmissione sostanzialmente schierato su posizioni antiberlusconiane. Ghedini è in gabbia e dopo due ore di accanita difesa politica e giudiziaria del suo capo – all’epoca era appena scoppiato il caso Ruby e il bunga bunga – decide di tirare fuori tutto il padovano che ha in se e inizia a risolvere ogni disputa con un prepotente ma va là, ma va là, lei non sa quel che dize e così via Alla fine il copione, in quelle serate cult, era sempre lo stesso, praticamente un format. Il monologo di Travaglio su uno dei tanti processi al Cavaliere. La difesa appassionata del legale: cinico, efficiente, conoscitore di tutti i trucchi dibattimentali. I toni si alzano, Santoro se la ride. Finché Ghedini non tira fuori il suo ma va là. Rispettatissimo dagli avversari e perfino da tanti elettori di parte avversa: spulciando tra i commenti YouTube a corredo di una delle sue più efficaci performance in difesa del Cavaliere, l’opinione è unanime: “Non condivido una parola di quello che dice - scrive uno spettatore - ma se ne avessi bisogno e se me lo potessi permettere, chiamerei mille volte Ghedini. Ogni volta che lo sento parlare rimango incantato. Tranquillo, sempre educato, è un grande avvocato”.
Ghedini è un “grande avvocato”, prima di tutto per tradizione familiare. Nato a Padova sessantadue anni fa, è discendente di una storica famiglia borghese veneta, da sempre dedita all’avvocatura, con uno studio fondato nel Seicento, o almeno così raccontano in città. Era naturale che il giovane Niccolò, unico figlio maschio del capofamiglia Giuseppe, morto prematuramente negli anni Settanta, imboccasse la via del giureconsulto. Ma ci impiegò molto. Anzi, partì male: a scuola era più uno studente “monello” che “modello”, per sua stessa ammissione. Ascoltando una sua qualsivoglia requisitoria degli ultimi anni, nell’inchiesta di Trani, nei due processi Ruby, durante lo SME o nell’affaire Mills, chiunque sarebbe rimasto colpito – sostenitore o avversario di Silvio che fosse – dalla retorica e dall’assoluta padronanza della legge della toga padovana. “Io primo della classe? A scuola copiavo ogni volta che potevo. Soprattutto in greco” raccontava in una delle rare interviste concesse sulla sua vita privata, rinvenibile anch’essa spulciando con un po’ di pazienza su YouTube.
Prima di rimanere folgorato dal codice penale, Ghedini si dedicherà alla politica. Da giovanissimo è iscritto al Fronte della Gioventù, la giovanile del Movimento Sociale Italiano. Sono gli anni post-Piazza Fontana e Padova è covo ormai risaputo di soggetti coinvolti nei processi sulla strage avvenuta in quella notte del dicembre 1969. È la terra di Franco Freda. Niccolò finì perfino testimone nel processo per la strage alla stazione di Bologna anni dopo, avendo frequentato in gioventù anche esponenti di spicco della formazione neofascista Ordine Nuovo. Non è fascista, ma è sicuramente anticomunista, dice chi lo conosceva all'epoca. Intanto però il ragazzo studia. Si laurea in legge nella vicina Ferrara, qualche chilometro a sud, al di là del Po. Considerata nella vulgata dell’epoca il rifugio sicuro per chi non vuole confrontarsi con la difficile scuola padovana.
Ghedini è pronto, a metà anni Ottanta, ad entrare nello studio del padre, ormai defunto da più di un decennio. La situazione che si respira è tragica. L’attività è in profonda crisi. Le sorelle maggiori, anche loro avvocati, cercano di salvare il salvabile. Così chiamano l’esperto Piero Longo, quarantenne bellunese e già una certa fama di principe del foro alle spalle. Sarà il maestro professionale del giovane Niccolò appena indossata la toga. Sono gli anni in cui Ghedini, intanto diventato liberale del Pli, frequenta il manager di Publitalia e poi governatore del Veneto Galan. Ma a differenza di Giancarlo, Ghedini non è uomo da mondanità. È un cultore della disciplina, mai visto sulle pagine di Dagospia: “Zero, non esco mai, quando sono a Roma mangio in camera d’albergo o da Berlusconi” racconta nel 2009 a Klaus Davi. La svolta della sua carriera, e della sua vita, arriva nel 1998. A Milano è in corso il processo toghe sporche, un troncone del più vasto processo Ariosto-Sme. Silvio Berlusconi, allora leader dell’opposizione, è indagato per corruzione di magistrati in atti giudiziari. Il fondatore di Fininvest si affida a Longo e allo studio Ghedini. Si innamora subito della retorica del giovane Niccolò e lo fa eleggere alla Camera alle prime elezioni in calendario, nel 2001. Da allora siederà in Parlamento fino alla fine, sempre fedele a Forza Italia e al Popolo della Libertà. E dire che da parlamentare non sarà mai ricordato come un gran lavoratore. L’assenteismo, soprattutto nelle ultime tre legislature, toccherà sempre quota 80/90 per cento delle votazioni elettroniche. Per OpenPolis, nella legislatura precedente, su 19 mila e rotte votazioni, il senatore Ghedini ha partecipato solo a 138 di queste. 98,28%, il tasso di assenteismo. Record bipartisan della XVII legislatura. Interpellato sulla sua scarsa attività politica tra i banchi di Montecitorio e Palazzo Madama – due legislature da deputato e tre da senatore – non cercava di nascondersi. Anzi, argomentava: “Ritengo di dover andare solo quando ho qualcosa da dire nel mio settore. Il problema del declino della politica – rilanciava – è che oggi i politici vogliono parlare di tutto anche senza sapere nulla”.
Fatto sta che, nonostante in Parlamento lo si vedesse poco, i cronisti non potevano non notarlo ogni volta che entrava e usciva da Palazzo Grazioli, l’Arcore romana del Cavaliere prima di traslocare sull’Appia antica. È qui che in piena Seconda Repubblica si decidevano le leggi, i decreti, le grandi nomine. A tavola con Silvio: i fedelissimi Gianni Letta e Fedele Confalonieri, e poi altri consiglieri/colonnelli del partito. Tra questi Ghedini era tra i più apprezzati. Sempre presente quando si trattava di stilare le liste dei candidati forzisti. Anche in questi ultimi giorni, fino all’ultimo, il senatore uscente Ghedini era in costante contatto telefonico con il capo per individuare quali nomi dovranno finire nella rosa di Forza Italia in vista delle urne il prossimo 25 settembre.
Berlusconi ne decantò le lodi pubblicamente a più riprese. Sempre da YouTube: “Un grande professionista, un grande dirigente politico, ma prima di tutto un grande amico” diceva di lui l’ex premier in un videomessaggio. Gratitudine forse perfino troppo contenuta rispetto a quanto fatto per lui da Ghedini. Perché possiamo ricordarne le gesta giuridiche e politiche in lungo e in largo, ma non si può non parlare, quando si tratta di Ghedini, delle leggi ad personam, vero marchio di fabbrica di Silvio al potere. 36 processi in 25 anni. E probabilmente sarebbero stati di più senza l’intervento dell’amico Niccolò.
Quando la giustizia divenne un affare privato. Eravamo ad un bivio della storia repubblicana. Berlusconi scese in campo al termine di Mani Pulite. Era chiaro a tutti, nostalgici o meno della Prima Repubblica sepolta sotto le inchieste milanesi, come la riforma della giustizia in Italia fosse diventato un affare non rinviabile. Ma quale riforma? In che direzione? Se diamo un occhio alle gesta politiche dell’avvocato padovano, emerge un unico vero impegno nel corso di più legislature: essere il grande architetto dei vari Lodo Schifani, Lodo Alfano, Legittimo Impedimento, il rinvio di un anno di tutti i processi minori nel 2008 e via dicendo. Antonello Caporale lo definì una volta il “sarto di fiducia di Berlusconi”. Cuciva senza pausa leggi, disegni di legge, decreti su misura per il committente. Tanti di questi provvedimenti saranno in seguito dichiarati incostituzionali dalla Consulta. Ma furono comunque funzionali a raggiungere l’obiettivo prefissato, che era quasi sempre lo stesso: rinviare i processi, garantire un’immunità temporanea al presidente del Consiglio, e far avvicinare la prima data utile per far scattare la provvidenziale prescrizione. O a far stralciare la posizione dell'imputato. Questa, in fin dei conti, fu l’unica riforma della giustizia partorita da Forza Italia. E portava la prima firma di Ghedini.
L’abilità in tribunale. Codicilli, astuzie procedurali, cavilli. A detta di molti, la grande specialità del Ghedini (come si dice a Padova) sono proprio questi. “I cavilli. Da sempre” si confessava in un’intervista a Sabelli Fioretti, oggi sapientemente ripresa da Dagospia: “Ho sempre impostato le mie difese sulle questioni di procedura”. I cavilli sono giustizia giusta? “Il processo giusto è quello che segue le regole”. Onore delle armi: ci mise la faccia, praticamente sempre. Anche in tv (che non guardava mai). Indimenticabili non solo le sue già citate litigate con Santoro, pubblico e ospiti vari, al grido di battaglia ma va là. Di Ghedini si ricorderanno anche le definizioni passate alla storia giudiziaria e politica di questo paese.
La più celebre sul rapporto tra Berlusconi e Patrizia D’Addario, riguardo alle cene eleganti a Villa San Martino: “Anche se fossero vere le ricostruzioni di questa ragazze, e vere non sono, Berlusconi sarebbe al massimo l’utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile”. Rispettato da tutti, amici e avversari, dicevamo poc’anzi. Una reputazione da “bravo ragazzo” che non ha mai amato. Fu lui a lasciarsi sfuggire, una volta alla Stampa, che “Berlusconi è buono. Rispetto a lui io sono una carogna”. Chissà che anche in quella boutade involontaria, una delle poche della sua carriera tutta pane, toga e a letto presto, non ci fosse un tentativo estremo di difendere Silvio, l’amico e il capo di sempre. Stessa intervista: Avvocato, ce le dice tre parole per descrivere Berlusconi: “Gli voglio bene”.