di Giorgio Merlo
Non si deve vivere di nostalgia e né, tantomeno, si può replicare banalmente il passato. Anche se nobile e glorioso. Ma è indubbio che di fronte a una crescente e sempre più inquietante disuguaglianza sociale e a un tasso di povertà insopportabile per una società che si definisce evoluta come la nostra, la politica non può fare la fine dello struzzo, cioè nascondere la testa nella sabbia. Che, nel caso specifico, significa voltarsi dall’altra parte fingendo che il problema non esiste. Ora, per molto tempo questo disagio sociale è stato intercettato e affrontato da alcuni partiti politici. O meglio, all’interno di alcuni grandi partiti popolari e di massa da quelle componenti che venivano comunemente definite come “sinistra sociale”.
Su tutti spiccava la sinistra sociale di ispirazione cristiana all’interno della Dc con la storica corrente di Carlo DonatCattin, Forze Nuove. Ma in quel partito, comunque, c’erano molti altri esponenti che su questo versante apportarono negli anni un contributo di grande spessore e levatura politica ed intellettuale: dal Ermanno Gorrieri a Tina Anselmi, da Franco Marini a Tiziano Treu a moltissimi altri politici. Certo, anche in altri partiti popolari non mancava questa sensibilità politica e culturale. Ma era meno accentuata e forse anche politicamente meno caratterizzata. Comunque sia, al di là delle vicende del passato recente e meno recente, oggi quasi si impone la presenza politica e culturale di una “sinistra sociale”. Di ispirazione cristiana o meno che sia, la “sinistra sociale” è necessaria per ridare qualità alla nostra democrazia e credibilità alla stessa azione politica.
Una “sinistra sociale” che, nella desertificazione delle culture politiche che ha segnato in profondità la decadenza della politica italiana in epoca di marcato populismo e qualunquismo, si rende necessaria per incrociare le istanze e le domande sempre più impellenti dei ceti popolari e dello stesso ceto medio impoverito. Domande a cui, adesso, va data una risposta politica e legislativa senza attendere la prossima scomposizione e la ricomposizione della geografia politica italiana. Si tratta, cioè, di far sì, come diceva Donat-Cattin appena insediatosi al Ministero del Lavoro sulla fine degli anni ‘60, che “il dato politico nuovo deve consistere nel dare alla politica sociale complessiva un ruolo non più subalterno ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”.
Insomma, per Donat-Cattin, come per la miglior cultura cristiano sociale, l’istanza sociale doveva “farsi Stato”. Trovare, cioè, piena e irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica. Una concezione politica, cioè, che faceva del dato sociale, e quindi della “questione sociale”, il nodo centrale di ogni progetto politico e soprattutto di governo. Una concezione, come ovvio e scontato, che non individua nell’assistenzialismo becero dei populisti dei 5 stelle la soluzione più credibile per una rinnovata e drammatica questione sociale scoppiata dopo la doppia emergenza sanitaria e bellica. Ma, al contrario, una strategia di aiuto e di promozione concreta dei ceti popolari e di una vera e propria inclusione nello Stato di diritto e nel pianeta produttivo.
Per questi motivi, oggi, serve di nuovo la “sinistra sociale” che abbia, però, una grande e feconda ricaduta politica e legislativa. Non, quindi, una semplice testimonianza impolitica e puramente culturale ed accademica ma un progetto politico e di governo che parta dai bisogni dei ceti popolari e sappia tradursi in scelte concrete, reali e tangibili.