di Alfonso Raimo
Spopola Giuseppe Conte a San Gregorio Armeno. Giorgia Meloni troneggia tra Lucio Dalla e Diego Maradona. C'e' persino Luigi Di Maio. Ma sui banchi degli artigiani di Napoli che fanno i presepi d'arte, l'ultima statuina di Enrico Letta l'hanno venduta nel 2013, quando era presidente del consiglio. Per questa campagna elettorale niente. Chissà, visto il precedente, magari stavolta porterà bene al leader dem. Ma alla vigilia del voto i pronostici sono inclementi.
Dura vita quella del segretario Pd. A memoria nessuno che sia sopravvissuto alle elezioni. Dopo la sconfitta del 2008, Veltroni resistette qualche mese prima di arenarsi sulle regionali in Sardegna. Bersani pagò cara la 'non vittoria': niente premiership, addio segreteria. Renzi accompagnò il 18,7% che rappresenta il punto più basso di sempre con l'annuncio di dimissioni a scoppio ritardato. Enrico Letta cerca in tutti i modi di sfuggire alla maledizione del Nazareno. "Sono ingenuo, è il mio peggior difetto", dice di sè il giovane Letta. E ha ragione. S'è fidato di Renzi, che gli ha fregato il governo. Per le alleanze in questo turno elettorale ha firmato nero su bianco con Calenda, che lo ha mollato neanche 24 ore dopo. Così le ambizioni si sono via via ridimensionate. "Puntiamo a essere il primo partito d'Italia", disse il 12 agosto scorso. A due giorni dalle elezioni, si accontenta di approdi più modesti. "Ho la testa a domenica, sono convinto che andrà molto bene", spiega. Ma è training autogeno.
In campagna elettorale l'asticella si è abbassata via via dal 25-26 per cento dei primi giorni, al 23, fino al 20. Una linea di galleggiamento gli consentirebbe di scansare quota Renzi e di mantenere la guida del partito, allontanando lo spettro del congresso. Ma non è detto che ci riesca. Base riformista brandisce Stefano Bonaccini e lo incalza, a norma di statuto.
Al Nazareno le cose sono cambiate in fretta. Al varo delle liste, Letta era partito col sostegno di tutte le correnti. Ma dopo aver fatto fuori Luca Lotti e molti dei notabili locali che detenevano il potere di fatto, dopo aver infarcito le candidature di fedelissimi e i collegi di paracadutati, in tanti si sono sentiti demotivati. "Lui ha sbagliato, ma è anche vero che l'hanno lasciato solo. E' chiaro che stanno con la testa al congresso", spiegano fonti delle coalizione. All'apertura della campagna di Roma meno di 500 persone sotto il palco di Santi Apostoli. E soprattutto pochi dirigenti di peso.
Se con Calenda è andata male, coi Cinque Stelle, è stato il festival dei ripensamenti. Dopo la caduta del governo Draghi, Letta ha chiesto e ottenuto un mandato dalla direzione che prescindesse dal partito di Conte. "I draghicidi per noi pari sono", era il leitmotiv che risuonava al Nazareno come un de profundis per il Campo largo. Ma a metà campagna i Cinque stelle sono prima tornati semplicemente 'compagni che sbagliano' (cosi' Andrea Orlando e Dario Franceschini) da recuperare dopo il voto, e poi anche possibili voti utili in una battaglia sempre più disperata contro la Meloni. In particolare al Sud dove qualche spiraglio si è aperto in alcuni collegi (9 tra Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna). Ecco allora che Letta sale sul palco con Michele Emiliano, il quale invita a "far confluire il più possibile i voti, non importa se al Pd o ai 5 Stelle". Ma come non importa? E il voto utile? E Letta che fino a pochi giorni diceva: "Ogni voto ad Azione e ai M5s aiuta la destra?" Acqua passata.
Che dire poi dell'unica alleanza di un qualche peso, quella con Sinistra Italiana e Verdi? In piena campagna Letta ha tenuto a precisare: "Siamo alleati, ma con loro non governeremo". Un primato: la prima alleanza per farsi l'opposizione.
Cosi' i sondaggi fotografano una situazione sempre piu' difficile. Anche nei collegi contendibili del Sud, Pd e Cinque stelle sono più o meno alla pari, e il centrodestra qualche punto sopra. Uno dei due dovrebbe mollare, per consentire all'altro di aggiudicarsi il seggio. Sarebbe la celebre 'desistenza' riveduta e corretta. Ma neanche quella si riesce a fare. Conte continua a menare come un fabbro ('con Letta non parliamo') e Letta è costretto a ribadire senza troppo convinzione che la divisione coi Cinque Stelle è definitiva. Ma è un modo per salvare la faccia, in vista della resa dei conti. Passano poche ore e Letta intravede "opportunità triangolari" per strappare collegi alla destra. Una riedizione cubista delle convergenze parallele. Il segretario e' solo. Lo prova la mezza intesa che avrebbe raggiunto coi capicorrente. Comunque andrà, niente congresso subito dopo il 25 settembre. "Passerà qualche mese, per non dare soddisfazioni alla destra. Poi andremo a congresso", spiegano da Base riformista. E' già deciso. Anche il mite Prodi si arrende.