di Alessandro De Angelis
Diciamoci la verità: è partita bene Giorgia Meloni, quantomeno in termini di prudenza e sobrietà. Ha evitato festeggiamenti scomposti in mondovisione (non si sa mai: qualche braccio nervoso ripreso della Cnn). Non ha ceduto alla vanità dei riflettori in una conferenza stampa autocelebrativa limitandosi a qualche tweet, come quello a Zelensky, per ribadire un’intransigenza atlantista. E sta riflettendo anche sull’eventualità di dare una delle due Camere all’opposizione, come si faceva una volta. Bella mossa, sia come cultura istituzionale sia in chiave tattica (come fai dire che è fascista uno che ti dà la presidenza della Camera?).
Bene. Ora, però, siamo già al dunque. Alla battaglia del Viminale. Questo il senso dell’incontro con Matteo Salvini. Prevedibile che il leader leghista squadernasse la richiesta dell’Interno, forte del consenso del suo partito, dove la sfida al Capitano da parte dei suoi oppositori assomiglia ormai alla famosa rivoluzione nella canzone di Giorgio Gaber “oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente”. Sterminati nelle liste prima, usi ad obbedir tacendo anche nel dopo non brillantissimo voto. E Giorgia, che nei suoi desideri avrebbe voluto al governo Giorgetti, si ritrova in una trattativa dove l’alleato mette sul tavolo la posta più alta. C’è poco da fare: se la formazione del governo, nei suoi ministeri chiave, chiarirà la sua postura europeista, dei quattro ministeri chiave – Difesa, Interni, Esteri ed Economia – Salvini al Viminale rappresenta il virus in grado di infettare il tutto, condizionandone stato di salute e durata.
D’un sol colpo, se accettasse una presenza così ingombrante l’aspirante premier rischierebbe di perdere la credibilità atlantista, acquisita con il sostegno all’Ucraina affidando la sicurezza nazionale al leader di un partito ancora legato da un patto politico a Russia Unita e sfacciatamente contrario alle sanzioni e, al contempo, rischierebbe la contizzazione, nel senso di Conte I esponendosi a una dinamica in cui il Viminale diventa una specie di palazzo Chigi 2 che logora palazzo Chigi 1 a suon di battaglie navali.
E ancora: condizionerebbe la formazione stessa del governo. Insomma: come fai, se dici di sì a Salvini all’Interno poi a dire di no a Tajani agli Esteri? Verrebbe cioè meno lo schema di mettere delle figure tecnico-politiche, di altro profilo nell’intero comparto che definisce sicurezza, difesa, rapporti internazionali a vantaggio del classico schema di governo di coalizione, che nasce col bilancino dei partiti, inevitabilmente più turbolento. E se è vero (ed è vero) che il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani ha proposto lo schema dei due vicepremier (lui e Salvini), si capisce in che modo si pone il dunque: Meloni deve scegliere se sparigliare, da subito, forte di condizioni irripetibili – la sua forza nel paese e la debolezza altrui – oppure lasciarsi consumare da un commissariamento di fatto.
Facciamola breve, è chiaro che Giorgia opterebbe per la prima opzione, ma un conto sono i desiderata, altro è gestire il primo vero problema. Anche perché non ha la sponda di Forza Italia, per le ragioni di cui sopra (se all’Interno ci va un politico, agli Esteri tocca a Tajani). È un classico conflitto di leadership: lei non può permetterselo, lui deve assolutamente entrare al governo (questione di sopravvivenza) e, se non ha dalla sua i voti, riesce ancora a parlare da dominus di un partito che controlla ancora. Del resto, che ci va a fare uno così all’Agricoltura o ai Trasporti, se non ha la polemica dei migranti? È presto per capire come va a finire, ma è chiaro che è “la” storia, anche dei prossimi giorni. A proposito: non tirate in mezzo Mattarella, con l’adagio del “come fa a nominare un ministro così”, essendoci il precedente dell’altra volta e mancando una sentenza definitiva al processo che lo vede coinvolto. Spetta a Giorgia gestire problemi, rischi e conseguenze.