di Lorenzo Santucci
"Credo che, alla fine, diventerai presidente degli Stati Uniti". Le parole di stima che il colombiano Gustavo Petro ha rivolto al segretario di Stato americano Antony Blinken – che ha risposto con un sorriso e scuotendo la testa - dimostrano come il dialogo tra Washington e il Sudamerica sia ancora vivo, nonostante le frizioni abbiano spinto la regione nelle braccia di Cina e Russia. Tenerlo in piedi è proprio l'obiettivo del tour di cinque giorni del massimo diplomatico statunitense, iniziato ieri da Bogotà per finire venerdì in Perù, passando per il Cile. Tre Stati in cui la sinistra sudamericana è tornata al potere puntando forte sull'antiamericanismo, un sentimento che da quelle parti riveste ancora un certo fascino come dimostra il boicottaggio di massa al Summit delle Americhe ospitato a giugno da Joe Biden. L'ondata rossa, non a caso, ha travolto quasi tutta l'America Latina: Luis Arce in Bolivia, Gabriel Boric in Cile, Pedro Castillo in Perù e Gustavo Petro in Colombia, in attesa di conoscere l'esito del ballottaggio in Brasile che potrebbe riportare Lula e il Partito dei Lavoratori alla presidenza. Sono solo gli ultimi presidenti ad essere stati eletti nei rispettivi Paesi, ciascuno dei quali oggi si ritrova alle prese con più problemi di quanti ne aspettasse di incontrare e per cui gli Stati Uniti provano a tendere una mano per aiutare a risolverli. Anche perché, data la vicinanza e i legami, si tratta di problemi che interessano tanto il Sud quanto il Nord America, che ne subisce gli effetti. La visita di Blinken sembra quindi voler porre rimedio al comportamento degli Stati Uniti negli ultimi anni, più interessati a quanto accade in altre parti del mondo (in Europa ma soprattutto nel Pacifico) rispetto a quello che avviene sotto il proprio naso. Al contrario di Mosca e Pechino, ben contente di condurre affari in quello che non sembra più il cortile di casa degli americani.
Prima della partenza, a spiegare il senso della missione diplomatica ci aveva pensato Brian Nichols, assistente di Blinken per gli Affari nell'emisfero occidentale. "Non giudichiamo i Paesi in base alla loro posizione nello spettro politico, quanto piuttosto al loro impegno per la democrazia, lo stato di diritto e i diritti umani", ha dichiarato alla stampa.
"Stiamo visitando tre Paesi che sono stati partner commerciali vitali di lunga data degli Stati Uniti, con accordi di libero scambio e con una lunga storia di cooperazione". Tuttavia, nei tempi più recenti, le strade hanno preso spesso direzioni differenti. I problemi socio economici interni ai Paesi latinoamericani hanno contribuito alle vittorie dei leader antisistema, che hanno promesso riforme strutturali per riequilibrare i divari all'interno della popolazione, ma adesso si trovano in difficoltà nel mantenere la parola data. Lo stampo (pseudo)socialista delle riforme ha messo sull'attenti gli Stati Uniti, che non hanno perso occasione per rimarcare il loro dissenso su alcune politiche, sul lato economico ma non solo. Lo ha ammesso anche lo stesso Petro ieri, mentre era al fianco di Blinken durante la conferenza stampa post incontro, parlando di "prospettive diverse" soprattutto per quanto riguarda la lotta alla droga e, più in generale, la questione migratoria. Entrambe sono di interesse primario per gli Stati Uniti, che vedono arrivare sul loro territorio tanta cocaina quanti profughi, ma a dividerli dai loro vicini è l'approccio alla questione. Per il presidente colombiano, quello degli americani sulla droga è stato del tutto fallimentare mentre oggi c'è bisogno di una strategia internazionale per sconfiggere una delle piaghe endemiche della Colombia – seppur, rispetto al 2020, l'anno scorso la produzione sia leggermente scesa a 972 di tonnellate – così come dell'intera America Latina. L'altra, la corruzione, è ugualmente lontana dall'essere risolta.
Il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador è stato tra i più duri oppositori della presidenza Biden. Fu proprio lui a guidare la rivolta, trasformata poi in un boicottaggio, contro la decisione della Casa Bianca di non invitare all'ultimo Summit delle Americhe Cuba, Nicaragua e Venezuela, riabilitate da alcuni Stati regionali (come la Colombia) ignorando le sanzioni di Washington. A seguirlo furono gli omologhi di Bolivia, Guatemala, Saint Vincent e Grenadine, Guatemala e Honduras. Anche il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sembrava intenzionato a non andare, salvo poi ricredersi. Fatto sta che le assenze hanno pesato non poco sul vertice organizzato da Biden, che non ha potuto affrontare come avrebbe voluto alcuni punti centrali del suo lavoro. Come quello sulla migrazione irregolare, al centro del dibattito della campagna elettorale in corso, che aveva promesso di risolvere mettendo una pezza alle falle lasciate da Donald Trump. Anche elargendo ai Paesi dell'America centrale fino a quattro miliardi di dollari, purché i governi dimostrassero piena volontà nel contrastare corruzione e violenza così come previsto dall'Us citizenship act 2021. Le sedie rimaste vuote al Summit sono la perfetta rappresentazione di quello lasciato dagli Stati Uniti in termini di influenza regionale. Che, inevitabilmente, è stato riempito da altri.
Non appena il presidente Obrador ha annunciato la sua assenza, la Cina lo ha subito spalleggiato nella sua decisione, mostrandosi come un partner capace di ascoltare le sue istanze. La presenza cinese in Sudamerica è cresciuta man mano che entrambi gli attori acquisivano riconoscimento internazionale. Anzi, si potrebbe affermare che l'uno ha contribuito alla crescita dell'altro. Secondo quanto scrive il Wall Street Journal, Pechino ha investito oltre 130 miliardi di dollari tra il 2005 e il 2020, con le due banche cinesi CDB e China Exim Bank che sono diventate le maggiori creditrici dell'area. Per capire quanto la Cina si è incuneata nella regione basti pensare che a inizio secolo l'interscambio era di appena 12 miliardi di dollari, mentre due anni fa era arrivato a 315 miliardi di dollari. Da qui al 2035, inoltre, dovrebbe sfondare quota 700 miliardi di dollari. Gli affari vanno quindi a gonfie vele, visto che il Dragone è il principale partner commerciale di Brasile, Cile, Perù e Uruguay mentre, per molti altri, è tra i primi interlocutori. La Belt and Road Initiative passa anche per il Sud America e, pertanto, gli investimenti cinesi nella regione interessano soprattutto le infrastrutture, le telecomunicazioni (Bolsonaro era pronto a far entrare Huawei e il suo 5G in cambio di vaccini) e il settore bancario. Non solo, perché l'interesse della Cina riguarda anche l'agroalimentare.
Con le politiche protezionistiche di Donald Trump, Pechino si è vista tagliare gran parte dell'import dagli Stati Uniti, compresa la soia con cui alimenta i suoi allevamenti e la sua popolazione. Così si è rivolta al Brasile, che di soia e altre monoculture abbonda a scapito del proprio patrimonio verde, cementificando ancor di più i rapporti tra i due Paesi. Tuttavia alla Cina interessano tante altre materie prime di cui l'America Latina è ricca. Testimonianza ne è la miniera di Las Bambas, tra i più grandi giacimenti di rame del Perù – che ne è secondo produttore al mondo – e di proprietà della cinese Mmg. Da ultimo, il Dragone ha bisogno di isolare Taiwan quanto più possibile e l'isola può contare ancora su tanti alleati in America del Sud. Su quindici Stati che riconoscono Taipei, nove si trovano proprio in quell'angolo meridionale di mondo. Tra il 2017 e il 2018, la pressione di Pechino ha portato Panama, Repubblica Dominicana ed El Salvador a interrompere le relazioni con Taiwan, ma Xi Jinping sa che da quei territori può ottenere ben di più.
Lo stesso spera anche Vladimir Putin, alla disperata ricerca di alleati con cui continuare a dialogare. L'interesse della Russia parte dai tempi dell'Unione sovietica, che aveva fatto di Cuba il suo vessillo da ergere a pochi chilometri dal confine statunitense. Caduta l'Urss, i legami tra la Federazione Russa e la regione sudamericana non si sono interrotti ma hanno proseguito seguendo altri canoni. Anche la guerra in Ucraina, diversamente da quanto si potesse credere, non ha fatto naufragare i rapporti che Mosca ha con le diverse cancellerie. Sono in poche infatti quelle che si sono scagliate contro l'invasione – Colombia, Uruguay e Cile – mentre sono molto di più quelle che hanno adottato delle riserve alla condanna. Il Brasile di Bolsonaro ha votato contro la Russia in sede di Consiglio di sicurezza dell'Onu, salvo poi preferire rimanere nella neutralità, l'unico modo "per raggiungere la pace". Un peso lo hanno avuto i tanti fertilizzanti che arrivano da Mosca. A febbraio, prima dello scoppio del conflitto, era stato ricevuto anche al Cremlino e, come lui, il suo omologo argentino Alberto Fernandez, anch'egli grande assente nel condannare la Russia di fronte all'Organizzazione degli Stati americani. Ancora: il presidente messicano Obrador aveva affermato come "la nostra posizione è di condanna all'aggressione militare, ma voglio lasciare in chiaro che faremmo lo stesso per qualsiasi altra invasione, anche se si trattasse, ad esempio, della Cina o degli Stati Uniti".
La partita che Blinken va a giocarsi in Sud America, dunque, appare molto complessa. Non si tratta di una visita qualunque, perché ogni qualvolta un funzionario americano scende nel proprio cortile di casa ci sono motivazioni forti che lo spingono. In questo caso il segretario di Stato dovrà spiegare che l'interesse di Washington per lo sviluppo della regione è intatto. E non solo perché altri attori lo stanno dimostrando con più convinzione.