di Mattia Feltri
Talvolta non è così importante quello che si dice ma come lo si dice. La senatrice a vita Liliana Segre ha aperto la XIX legislatura ricordando quali sono i capisaldi della Repubblica: la Resistenza, la Liberazione, Giacomo Matteotti e il rifiuto della violenza politica, la Costituzione nata dopo l'abisso del fascismo e della guerra mondiale che hanno radici nella Marcia su Roma, di cui fra pochi giorni ricorrerà il centenario, e cioè il rifiuto della dittatura e la scelta della democrazia rappresentativa, e infine il lavoro e il Primo maggio, e cioè un catalogo delle ovvietà davanti a certe camiciole nere e certe braccia tese che non sono nemmeno nostalgia ma caricatura; oppure, per l'aria che tira, una sfida puramente declamatoria, nello stile della perenne parata antifascista, un bell'abito e sotto niente. Ma con Liliana Segre è stato nulla di tutto questo.
Lei, donna ebrea di novantadue anni, ha ricordato di essere stata cacciata dai banchi dalle scuole elementari per le leggi razziste (non razziali, razziste: ben detto), e per il miracolo della democrazia, oggi si è ritrovata sul banco più prestigioso della rappresentanza parlamentare. Non ha usato retorica né accenti di rivalsa, ha soltanto ricordato che pochi quanto lei oggi possono incarnare la nostra storia: siamo stati un paese fascista o perlomeno acquiescente nella sua stragrande maggioranza, abbiamo recuperato dignità e democrazia, c'è chi è morto per recuperarle, e abbiamo edificato istituzioni che sono la garanzia della libertà di tutti noi, anzitutto la libertà di partiti di destra di tornare al governo, la libertà delle opposizioni di progettare una politica alternativa, e poi la libertà dello stato di diritto. E cioè il lungo percorso dalla marcia su Roma del 1922 alle leggi razziste del 1938, dall'Assemblea costituente a oggi, che un partito di destra può tornare al governo, è il percorso di un paese nella sua interezza.
Tutte le grandi società si fanno carico insieme del loro passato e si fanno carico del futuro. Il discorso pronunciato da Segre, senza che una sua sola sillaba indugiasse nell'ampollosità, ha compiuto il miracolo di farci uscire per qualche minuto da quella sconsolante parodia di guerra civile in cui ci infiliamo spesso o sempre per incapacità di pensare al domani. Questo è il nostro paese, è la nostra Repubblica, è la nostra democrazia, questi sono i nostri capisaldi anche se a qualcuno dispiacesse, e lo sono anche con il po' di carica mitologica che ogni atto fondativo porta con sé, e sono i capisaldi di quasi ottant'anni di vita italiana libera e prospera. Questo è tutto quanto abbiamo, e non è poco, è bisogna che ognuno ne abbia cura. E se ognuno di noi ne avesse tanta cura quanta ne ha avuta Liliana Segre, saremmo la grande democrazia che potremmo essere.