di Alessandro De Angelis
Mai si era visto, sulla presidenza del Senato, che una maggioranza si spaccasse in modo così traumatico. Addirittura con una sua componente che, come primo atto della legislatura, non partecipa al voto: non una scheda bianca, ma un Aventino sul Senato. E i franchi tiratori dell'opposizione – una ventina, un decimo del Senato - che la salvano regalando un imprevedibile successo a Giorgia Meloni. A maggior ragione in un'elezione ad alto valore politico e simbolico, carica di significati storici e culturali.
Diciamolo: game over, da oggi l'evocazione, variamente declinata, del fascismo perde qualunque ancoraggio con la realtà e diventa inservibile, perché soffocata nelle miserie di un inspiegabile tatticismo parlamentare. Certo di alcuni, ma che chiama in causa tutti, perché è mancata, innanzitutto, una strategia e una visione comune delle opposizioni. Di tutte: Pd, Azione, Cinque stelle. Un'idea, sia pur accennata; un guizzo, tanto per giustificare la propria funzione.
Pensate se, ad esempio, dopo il discorso di Liliana Segre, l'incarnazione vivente dei migliori valori della Repubblica, come tributo alla sua storia le opposizioni tutte, a mo' di gesto simbolico, avessero scritto il suo nome sulla scheda. Per dare il senso di una identità e di una sfida valoriale in modo icastico e comprensibile (tra l'altro avrebbe consentito di tracciare le schede). E quella differenza di mondi e culture sanciti dai discorsi della senatrice a vita e del neo presidente Ignazio La Russa. Da un lato la Costituzione come testamento politico e morale dei "milioni di morti per la libertà, a partire da Giacomo Matteotti" e il valore fondante del 25 aprile. Dall'altro un impianto carico di echi degli anni Settanta e che, ancora una volta, rimuove i conti con la storia. Che vengono taciuti nell'equiparazione tra 25 aprile e Festa del Regno e appaltati furbescamente alle parole che pronunciò, più di venticinque anni fa, Luciano Violante.
E peccato che qualcosa non torni, perché l'allora presidente della Camera, da sinistra, nell'ottica della pacificazione nazionale, si interrogava, nell'ambito di una vicenda complessa di cui era parte integrante, su una guerra civile e sulle necessità di comprendere le ragioni di chi sceglieva di morire dalla parte sbagliata. E peccato che il neo-presidente del Senato, da destra, ometta di dire che se avessero vinto quelli della "parte sbagliata" non si sarebbe mai seduto sullo scranno più alto di palazzo Madama.
È uno scacco drammatico per le opposizioni, che hanno perso l'occasione irripetibile di rendere plastica la falsa partenza della maggioranza, appena eletta dal popolo, perché avvitata in un mercanteggiamento di poltrone rivelatore di profonde divergenze politiche e odi personali. Scacco destinato a lasciare un lungo strascico di "caccia a streghe", recriminazioni su chi siano quelli della "sporca ventina" e veleni tra le sue componenti.
E c'è solo un'altra debacle strategica di pari intensità, quella di Silvio Berlusconi, entrato con l'idea di dimostrarsi essenziale e finito come irrilevante. Il suo grande ritorno in Senato dopo nove anni è un capolavoro di insensibilità istituzionale e scarsa lucidità politica. La prima resa plastica sin dal ritardo con cui ha imposto lo slittamento nell'apertura della seduta, sia pur di una decina di minuti, in quanto impegnato in un incontro con Giorgia Meloni per subordinare il voto alla presidenza del Senato alle richieste sulla compagine di governo. La seconda resa altrettanto plastica da un plateale vaffa, sempre a proposito di stile, indirizzato proprio a La Russa per poi ricevere un altro plateale vaffa dall'Aula che ha sancito l'inutilità della sua manovra.
Non è dato sapere se il soccorso dei venti franchi tiratori sia spontaneo, frutto di calcoli personali, di un impazzimento di clima o di apprendisti stregoni di vari partiti (il numero questo dice) che, pensando di evidenziare le difficoltà della maggioranza, l'hanno aiutata, non facendosi così comprendere da nessuno perché sono stati eletti per contrastarla non per aiutarla. O se sia spontaneo, nel senso di preparato, e in tal caso un certo machiavellismo luciferino va ascritto tra le qualità della premier in pectore.
Sia come sia, virtù o fortuna (per rimanere al classico fiorentino) l'esito è clamoroso, perché ha dentro un elemento di paradosso: Giorgia Meloni, che fino alle 13,30 sembrava aver sbagliato tutto - vincolando l'elezione dei presidenti alla trattativa sul governo e non chiudendo né l'una né l'altra in uno stillicidio – e si era messa nelle condizioni di uscirne azzoppata, perché se La Russa non fosse stato eletto i titoli sarebbero stati su una "quasi crisi" di governo prima della nascita del governo, d'un colpo si ritrova con l'opposizione nel caos e con Berlusconi piegato. Non è poco in una giornata destinata ad essere una di quelle da segnare cum nigro lapillo in cui anche l'arresto del fratello di Donzelli, uno degli uomini chiave di Giorgia Meloni, avrebbe dato all'aspirante premer il senso di un assedio e di un già logoramento, se sommato a una sconfitta politica.
È vero: la maggioranza è una non maggioranza con le sua fragilità, evidenti nell'estenuante trattativa sul governo e nel gioco al logoramento (oggi non è riuscito, domani chissà) che si preannuncia come il gioco della legislatura dei due riottosi alleati vero Giorgia Meloni. Ma è altresì vero che, come altrettanto evidente, nessuno abbia la forza politica di non far nascere il governo oggi e di farlo cadere domani. Né Salvini, né Berlusconi che aveva lasciato palazzo Madama come il "padre padrone" del centrodestra ed è rientrato come una "tigre di carta". Se non trova a breve una way out e una modalità di convivenza rischia di rimanere con i pochi intimi che testardamente ripropone al governo. E, questa sì, è la vera "decadenza".