Franco Esposito
Paola Egonu è un caso ancora aperto. Aprite gli occhi, gente d'Italia, e sturatevi le orecchie, lasciateli perdere gli struzzi che amano tenere la testa sotto terra. La denuncia della pallavolista della nazionale italiana è una scossa alle coscienze di tutti noi; il caso di Mohamed, sedici anni, calciatore all'inseguimento dei rimbalzi di un sogno, conferma che, in certi ambiti, siamo un popolo civile molto su generis.
Mohamed non vuole più giocare a calcio. Il pallone è la sua passione, ma due giorni fa è tornato a casa in lacrime. "Ho chiuso", la secca comunicazione girata alla famiglia, incredula e sorpresa. Il sogno infranto da una parola, una soltanto, "Negretto". Lo ha chiamato così l'allenatore della squadra avversaria, durante una partitina fra ragazzini, alle periferia di Busto Arisizio, in provincia di Varese. Un cosa fra ragazzini, chiamati a scrivere le aste del calcio. I precoci che sognano appunto di diventare un giorno calciatori di successo. E pure ricchi. Ma questa è un'altra storia, scritta di norma dai genitori degli imberbi calciatori.
"Negretto", detto, chissà, forse, magari anche con un certo affetto e un nimino di simpatia. Ma perché dare del "negretto" a Mohamed, a cinque minuti dal fischio finale? L'arbitro ha interrotto la partita per solidarietà. La giornata dell'imminente sconfitta del Gallarate si è trasformata all'improvviso nell'ennesimo geave episodio di razzismo nel mondo del calcio pieno di falsità. Paola Egonu si è ritrovata ideale compagna di un'altra vittima del razzismo. In un Paese, il nostro, l'Italia, che tutto è (o dovrebbe essere) ma non certo a vocazione razzista.
La discriminazione nello sport, purtroppo a qualsiasi livello. Il massimo quello di Paola Egonu; il minimo quanto accaduto sul campetto di Sacconagu. Identico però il significato dell'offesa. La discriminazione per il colore della pelle diverso dal bianco. Bersaglio della parolina il giovanissimo calciatore di origine marocchina. Abdelkrek Mohamed,
Isl padre del ragazzo è intenzionato, intanto, a sporgere denuncia. "Non starò zitto, La società deve mandare a casa l'allenatore che si è rivolto a Mohamed in quel modo". L'arbitro ha provveduto ad espellere l'offensore, quando lo hanno informato su quanto accaduto. Ma è ancora più grave il fatto che il mister non avrebbe mai chiesto scusa al ragazzo. "Negretto" è rimasto a mo' di macchia mai lavata da parole di segno opposto.
Mohamed ci è rimasto malissimo. Da qui la decisione di "non giocare più a calcio". Solidali con lui anche i ragazzi di colore che fanno parte della stessa squadra. Cinque sono originari del Marocco. "Ma un episodio di questo genere non era mai successo". Al momento dell'interruzione arbitrale, il Cus Sacconago stava perdendo 1-3, quando quella parola è rimbalzata sul terreno di gioco e all'istante è esplosa l'indignazione dei presenti. Il papà d Mohamed era in tribuna. "A fare il tifo per mio figlio e a un certo punto mi sono accorto che Mohamed era arrabbiato. Quando, poi, gli ho chiesto cosa fosse successo, stentavo a credere alle sue parole".
Tagliabile col coltello, la tensione è salita tono di tono in conseguenza del grave, greve epiteto proveniente dalla panchina. La serenità è sparita d'incanto. La limpidezza di quella domenica mattina ha assunto colori tra il grigio e il nero.
Troppo distante l'arbitro, non ha sentito; benissimo l'ha sentita quella brutta parola Mohamed, che non ha finto di non aver avvertito nulla. L'allenatore e i compagni di squadra non hanno avuto la minima incertezza: dovevano andarsene e sono andati via, incuranti del risultato e di eventuali provvedimenti disciplinari. "I ragazzi hanno semplicemente abbandonato il campo, non solo il terreno di gioco; alcuni non hanno fatto nemmeno la doccia".
A muovere la decisione dei compagni di squadra di Mohamed la volontà di dare "un segnale forte alla squadra avversaria, la volontà di far capire", spiega l'allenatore del Cus Saccomanno, Massimo Di Cello. La decisione presa tutti insieme, i ragazzi, il mister, il dirigente presenta sul posto. "Impossibile proseguire dopo quello che era successo". Nessuna protesta da parte dei giovani della squadra avversaria. "Hanno compreso la gravità dell'episodio e sono rimasti in mezzo al campo, fermi e tranquilli".
Chiedono cosa, ora, il mister Di Cello e i ragazzi della squadra del quartiere di Busto Arsizio? Prentedono che quello sboccato dell'allenatore avversario si scusi con Mohamed. "La vittoria a tavolino non ci ineressa minimamente. Anzi quei tre punti eventuali preferiremmo non accettarli: Speriamo solo che la Federazione prenda provvedimenti".
L'episodio di chiaro razzismo ha sconvolto i fratelli maggiori del giovane Mohamed, studenti universitari a Busto Arisizio, rammentano che il fratello sedicenne è nato in Italia, risiede in Lombardia con la famiglia, gioca a calcio da quando aveva undici anni, e mai avrebbe immaginato che gli sarebbe capitato "un episodio così". Sentirsi discriminato proprio in quello che da sempre "è il suo posto sicuro, il campo di calcio". Il giorno dopo Mohamed è tornato a scuola "ma era molto arrabbiato e triste".
Il papà afferma di conoscere "benissimo gli italiani, lavoro e mangio con loro, nessuno aveva mai detto prima questa parola, né qualsiasi altra espressione a sfondo razzista". Ma il Gallarate, la squadra dell'allenatore che incautamente ha pronunciato la parola "negretto", e avversaria di quella di Mohamed? Il presidente assicura che "se qualcuno ha sbagliato pagherà. Ma questo dovranno stabilirlo solo e soltanto il referto dell'arbitro e i comunicati. Ci atteniamo alle decisioni ufficiali. Il resto lascia il tempo che trova".
Come, come? Proprio così, il presidente dell'allenatore forse razzista si lava le mani. Purtroppo l'Italia è piena di discendenti e imitatori di Ponzio Pilato.