di Micheal Khodarkovsky
Per decenni i media occidentali hanno salutato Vladimir Putin come un grande stratega. Ma se gli ultimi otto mesi ci hanno insegnato qualcosa, è proprio che questo stratega consegue obiettivi spesso opposti alle sue presunte intenzioni.
Putin ha promesso molte cose, anche che entro il 2020 avrebbe reso la Russia un posto in cui vivere bene. Invece, milioni di russi sono partiti per ristabilirsi in Occidente. L'economia russa rimane in gran parte dipendente da petrolio e gas, e dal 2013 il reddito interno lordo pro-capite è diminuito di quasi il 60%. Gli sforzi del governo per rallentare il declino demografico sono falliti e la mobilitazione militare del Cremlino per la guerra in Ucraina ha convinto oltre 300.000 russi a lasciare il paese. Tra coloro che non sono riusciti a scappare, o a trovare un espediente per sfuggire alla leva, molti sono cittadini non russi provenienti da regioni remote e povere dell'est e del sud.
Tutti questi fattori contribuiscono a dipingere un quadro a tinte fosche, con implicazioni palesi: anziché riesumare la grandezza della sua nazione, Putin rischia di assistere al crollo dell'ultimo impero russo. La Russia è sempre stata una potenza coloniale, che tuttavia si rifiuta di accettare questa realtà di fatto. Pur avendo conquistato e dominato moltitudini, ha continuato a ripetere che – a differenza delle violente conquiste occidentali – sono state le stesse popolazioni autoctone a cercare la protezione russa e che la dominazione russa era un bene. Questo scarto tra la retorica e la realtà è evidente nell'attuale designazione del paese, quella di «Federazione Russa».
La Russia conta 21 repubbliche, ciascuna con un gruppo etnico dominante non russo. In epoca sovietica, Mosca tracciò i confini territoriali e consentì a ciascuna la propria autonomia culturale. Dopo il crollo dell'URSS nel 1991, queste piccole repubbliche hanno preteso l'autonomia amministrativa e politica vera e propria. Il primo governo democratico guidato da Boris Eltsin era pronto a concedergliele e firmò trattati bilaterali con tutte le repubbliche, tranne una: la Cecenia. Quando la repubblica cecena si rifiutò di obbedire, chiedendo invece la piena autonomia, il governo di Eltsin inviò le sue truppe dando inizio a quella che è diventata la prima guerra cecena (1994-1996).
Durante quei pochi anni di democrazia, riemersero problemi e questioni che fino a quel momento erano stati tabù. Dai nuovi studi è emerso un impero espansionista e deciso a soggiogare i popoli indigeni. Nel 2000, dopo essere diventato presidente, Putin ha limitato le libertà e il dibattito aperto. Ha represso brutalmente le aspirazioni indipendentiste cecene e ha indetto la celebrazione di anniversari che confermerebbero la decisione dei popoli indigeni di «unirsi volontariamente alla Russia». Ha deciso poi di minare l'autonomia delle repubbliche indigene, di cancellare i loro confini etno-territoriali e di trasformarle in regolari entità amministrative russe. A tal fine, il Cremlino ha ordinato una riduzione dell'insegnamento nelle lingue indigene e assegnato incarichi locali ai lealisti. Nel luglio 2017, ha messo fine all'ultimo e più lungo trattato di condivisione del potere, quello con la Repubblica del Tatarstan.
Ma per Putin e i suoi alleati, il ritmo di questa cosiddetta russificazione non è stato sufficientemente rapido. Il Cremlino sa bene che i trend demografici sono disastrosi. Negli ultimi trent'anni, la popolazione di etnia russa ha subito un nettissimo declino, mentre quella non-russa è cresciuta esponenzialmente. Stando ad alcune stime, entro il 2050 la Russia potrebbe diventare una nazione a maggioranza islamica.
Putin è ossessionato dall'idea di proteggere il patrimonio genetico russo, che definisce «speciale», ma «a rischio di estinzione». Ha invaso l'Ucraina anche per rimpolpare la popolazione slava incorporandone i cittadini, che considera alla stregua di «piccoli russi». Un atteggiamento, questo, che insieme alle ambizioni di Putin per un «mondo russo» in cui tutti i russofoni saranno riuniti sotto il governo centrale di Mosca, ricorda chiaramente la Germania degli anni Trenta. È per questo che Mosca ha rapito e trasferito civili, in particolare bambini, dai territori ucraini occupati.
Da parecchio tempo Mosca considera il carattere multietnico della Russia una potenziale minaccia per il suo ideale di stato unitario. Con la guerra in Ucraina, Putin sembra aver trovato una risposta ai suoi sforzi tesi alla russificazione: il genocidio di quanti appartengono alle popolazioni non russe. Sin dai primissimi giorni dell'invasione, cominciata a febbraio, Mosca ha reclutato e arruolato non russi in maniera sproporzionata, compresi i tartari dalla regione della Crimea che è stata annessa illegalmente.
Le regioni non-russe stanno iniziando a reagire di fronte ai nefasti progetti di Mosca. Nelle ultime settimane, le proteste sono scoppiate in diverse regioni musulmane del Daghestan, della Baschiria e in Siberia. Quando la Cecenia ha annunciato di aver raggiunto il suo limite massimo e che non avrebbe inviato altri uomini, la repubblica di Yakutia, una vasta regione della Siberia, ha fatto altrettanto.
Il significato delle proteste non è sfuggito alle autorità ucraine. Il 29 settembre, il presidente Volodymyr Zelensky ha tenuto un discorso davanti al memoriale a Imam Shamil, leader politico del Caucaso settentrionale nel XIX Secolo, che ha guidato la guerra dei musulmani contro la Russia per quasi trent'anni. Zelensky ha fatto appello ai popoli del Caucaso e ad altri non russi affinché non permettano ai loro figli di morire nei territori ucraini. La causa per cui combattono, ha aggiunto, è la stessa: liberarsi dalla dominazione russa.
Putin dovrebbe guardare alla storia. Durante la Prima Guerra Mondiale, le autorità russe tentarono di arruolare i musulmani dell'Asia centrale. Il risultato fu una grande rivolta scoppiata nell'estate del 1916, la cui repressione durò mesi e comportò il dispiegamento di decine di migliaia di soldati russi. Alla fine, nessun musulmano venne mandato in battaglia e, ritirando le unità dell'esercito dal fronte per sedare la rivolta interna, la Russia accelerò la sua sconfitta finale. Meno di sei mesi dopo, lo zar e il suo governo furono costretti alle dimissioni
Inviando in Ucraina uomini non-russi, e perlopiù impreparati, Mosca rischia di andare incontro a un destino simile. Secoli di livore e frustrazione repressi verso il governo di Mosca potrebbero sfociare in uno scontro militare e in una guerra civile. E, alla luce delle attuali sconfitte militari, non si tratta di una prospettiva remota. Quando e se si concretizzerà, la Russia potrà crollare come già successo all'impero degli zar e all'Unione Sovietica. Sarebbe alquanto ironico se proprio l'uomo che era deciso a far rivivere l'URSS, dovesse invece ritrovarsi a inaugurare il tramonto dell'ultimo impero russo.