di Gianni Riotta
Al funerale del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, il 25 novembre del 1963, il leader sovietico Nikita Kruscev volle inviare una delegazione di alto rango, guidata dal vicepresidente del Consiglio dei Ministri, l'autorevole Anastas Mikoyan. Era l'omaggio al giovane presidente, ucciso a Dallas tre giorni prima, da parte del suo rivale della Guerra Fredda, con cui si era detestato al vertice di Vienna, il 4 giugno 1961, per poi avviare il disgelo della Guerra Fredda.
I due non potevano essere più diversi, aristocratico, elegante, colto Kennedy, rozzo, irruento, mal vestito Kruscev. Kennedy aveva studiato ad Harvard, Kruscev s'era formato sopravvivendo alla repressione di Stalin. Avevano un solo punto in comune, erano entrambi veterani della Seconda Guerra Mondiale, i cui orrori Kennedy aveva vissuto nel Pacifico, restando ferito a bordo del motoscafo PT-109, mentre Kruscev testimoniava la più sanguinosa battaglia del secolo, Stalingrado 1942-1943, Commissario Politico dell'Armata Rossa.
Il loro incontro, a Vienna, finì malissimo. Kennedy, inesperto ed idealista, era andato colmo di buone intenzioni ma impreparato, Kruscev, volpe esperta, pronto ad approfittarne. Sul tavolo due temi dimenticati, status di Berlino e questione del Laos, nel Sud Est Asiatico. Nella capitale tedesca, Mosca voleva fermare il flusso dei profughi verso l'ovest democratico, e si dovevano ancora siglare accordi diplomatici, insoluti dal 1945. In Laos, il predecessore di Kennedy, il presidente Dwight Eisenhower, aveva avviato una guerriglia strisciante contro i comunisti del Pathet Lao e le potenze rivali combattevano, per procura, ogni giorno. I colloqui non furono felici per Kennedy che, tornato a casa, confessò al leggendario editorialista del New York Times James "Scotty" Reston: "Mi ha massacrato, fatto nero, è stata la peggiore esperienza della mia vita".
Eppure, quando i due leader si trovarono alla sfida cruciale, nei tredici giorni della crisi nucleare a Cuba, 16-29 ottobre di 60 anni fa, l'esperienza tragica della guerra mondiale li trattenne sull'orlo del conflitto totale, dando vita a una stima che contribuì alla pace.
È il columnist del Washington Post David Ignatius a ricordare ora la lettera che, di pugno, la vedova del presidente, Jacqueline Kennedy, volle inviare al Cremlino a Kruscev, il primo dicembre 1963, ringraziandolo per la partecipazione dell'Urss, con Mikoyan dietro il feretro del marito: "Ho visto quanto si era commosso, ho provato a dargli un messaggio per lei, ma quel giorno era per me terribile e le scrivo dunque ora, una delle ultime lettere su carta intestata Casa Bianca. [Lei e John] Eravate due avversari, ma alleati nella determinazione che il mondo non dovesse esplodere...Il pericolo che angosciava mio marito era che la guerra non scoppiasse per le decisioni dei grandi uomini, ma dei piccoli uomini. Mentre gli uomini di personalità conoscono il controllo di se stessi e la moderazione, gli uomini piccini sono a volte mossi da paura e orgoglio".
Il controllo di se stessi, come Jackie Kennedy aveva intuito bene, aveva condotto Kruscev e Kennedy a chiudere il caso Avana con una saggia mediazione, attraverso i colloqui segreti fra il Ministro della Giustizia Robert Kennedy e l'ambasciatore sovietico, decano a Washington, dal 1962 al 1986, Anatolij Fëdorovič Dobrynin. L'Urss aveva ritirato i missili dalle basi di Cuba, per la rabbia di Fidel Castro e dei militanti, e avrebbe avuto, per salvare la faccia, la sostituzione degli obsoleti missili Usa Jupiter, già da rottamare in Turchia.
Il negoziato aveva poi portato Kennedy e Kruscev al più importante risultato, il Trattato sulla limitazione dei test nucleari, firmato a Mosca, il 5 agosto del 1963, dal segretario di stato Usa Dean Rusk e dall'eternamente corrucciato ministro degli Esteri sovietico Andrei Gromyko. Il giorno dopo si osservava il diciottesimo anniversario della distruzione di Hiroshima e il mondo respirò.
L'accordo richiese otto anni di trattative, otto!, e Kennedy faticò per altri due mesi, gli ultimi della sua vita, perché il Senato lo ratificasse, il 23 settembre del 1963. Il presidente poté finalmente siglarlo il 7 ottobre, un mese prima di morire.
Tanti, oggi, ricordano quei giorni, invitando, spesso anche in buona fede, a trovare una intesa con il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin sull'Ucraina, come si trovò con Kruscev a Cuba. Da quando Putin ha ben conoscendo i fragili nervi occidentali e la forza del partito filorusso in Europa, dalla Germania all'Italia, minacciato il ricorso ad armi nucleari, le due settimane di domino atomico all'Avana sono poi state citate, fra candore, malizia, ingenuità.
Il lettore non ci caschi, comunque la pensi della guerra in corso in Donbass e alla periferia di Kherson. A Cuba, i geopolitici putiniani su questo glissano, i missili atomici non c'erano, e vennero installati surrettiziamente. In Ucraina c'erano, la nazione era la terza potenza nucleare dopo Usa ed Urss, e vennero smobilitati in cambio, secondo i protocolli internazionali di Budapest del 1994, del rispetto dell'integrità territoriale per i confini ucraini.
L'idea di ridurre le armi atomiche, il miraggio di persuadere paesi come la Corea del Nord o l'Iran a deporre i programmi missilistici e l'arricchimento dell'uranio militare, sono stati, per sempre, cancellati dall'invasione di Putin in Ucraina: quale paese sarà mai indotto, da metodi diplomatici, a rinunciare alla bomba H? Nessuno più, tutti diranno, ovviamente, se il presidente Volodymyr Zelensky avesse avuto armi nucleari Putin non lo avrebbe sfidato.
Questo è il prezzo pagato da tutti, e questo anche il movimento pacifista, la gerarchia cattolica, dal Papa al presidente Cei Cardinale Zuppi, dovranno pesare nella loro, nobile, crociata: Putin ha rimesso l'atomica al centro del XXI secolo, da cui speravamo di cancellarla. In un suo bell'intervento sul Foglio, il cardinale Matteo Zuppi rievoca gli anni spesi per arrivare alla pace di Mozambico, anni, non mesi: in Ucraina la situazione è ancora peggiore, con secoli di storia alle spalle, la carestia Holodomor costata milioni di morti agli ucraini per la ferocia di Stalin, il tradimento di Putin. Firmare maldestri appelli per la "pace", mentendo sulla cessione della Crimea da parte di Kruscev, non citando i protocolli di Budapest e facendo a pezzi la "sovranità" di Kiev, perché tanto "noi non siamo ucraini", o insultando chi dissente, regala punti al videogame Italia Talk Show, non fa muovere un solo passo verso la fine dei combattimenti.
Capire le ragioni di una guerra, solo faziosi, ignoranti e ignoranti faziosi non lo riconoscono, è indispensabile a ricostruire la pace. Se Kiev non avesse rinunciato alle armi nel 1994, la guerra sarebbe stata evitata, almeno questa guerra.
Le prossime sei settimane, prima che il fango del maltempo fermi il fronte, potrebbero aprire la battaglia per Kherson, unica grande città che gli ambienti filorussi hanno saputo consegnare a Putin. I russi si ritirano dall'Oblast di Kherson, ma stanno trincerandosi nelle strade e nelle piazze, per quella che potrebbe essere una "Rattenkrieg", guerra dei topi, come Stalingrado 1942, Varsavia 1944, Hue, Vietnam, 1968. Vedremo quanti dolori ancora contare, vedremo quante vittime. Poi, forse, si parlerà almeno di un cessate il fuoco, se non di un accordo finale.
Sessanta anni or sono, Kennedy e Kruscev decisero di non rivedere l'apocalisse della guerra. Putin la usa invece per spaventare amici e nemici e, dopo Georgia, Cecenia, Siria e Donbass, se passasse in Ucraina, cercherebbe un bersaglio finale, dentro l'Unione Europea o la Nato. Perché, come diceva straziata dalla fine del sogno di Nuova Frontiera e della sua famiglia Jackie Kennedy: "Il pericolo...era che la guerra non scoppiasse per le decisioni dei grandi uomini, ma dei piccoli uomini...". Decidete voi la stazza, morale, politica, umana, di Putin.