di Claudio Paudice
"Sarà necessario mantenere e rafforzare le misure nazionali su bollette e carburante. Un impegno finanziario imponente che drenerà gran parte delle risorse reperibili, e ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di bilancio". Queste poche semplici parole offerte da Giorgia Meloni all'aula di Montecitorio condensano i due giorni di dibattiti alla Camera e al Senato sul voto di fiducia al neonato Governo di centrodestra. Nell'arco di un istante lungo 70 minuti, quanto il suo discorso ai deputati e senatori, è passata in cavalleria gran parte del programma economico con cui la coalizione si è presentata alle elezioni, vincendole. A non dire delle proposte lanciate dai banchi dell'opposizione da Meloni stessa, una angolazione dalla quale ogni misura appare a portata di mano. Ad agosto la premier propose di scorporare le spese destinate a contrastare il caro energia dal calcolo del deficit. Idea improvvisamente scomparsa dai suoi interventi nei due rami del Parlamento, repliche incluse. Per non parlare della divisiva questione dello scostamento di Bilancio: "È una priorità assoluta", disse a febbraio ospite di Alessandro Giuli ad Anni 20 Notte (minuto 22). "Se non mettiamo freno al caro bollette non so che fine faranno aziende e famiglie. Ma non basta: bisogna affrontare il tema con vere strategie".
Ma l'extra-deficit, assente ingiustificato nel vocabolario della premier (a onor del vero, scomparso da quando il Governo Draghi si è dimesso e la vittoria alle elezioni era lo scenario più concreto), non è l'unica strana sparizione nell'articolata agenda Meloni illustrata ripetutamente in campagna elettorale, ovvero quella dimensione spazio-temporale con cadenza solitamente quinquennale durante la quale la gravità cessa e le parole non hanno più alcun peso. Ad esempio, l'annunciato innalzamento delle pensioni minime promesso dalla coalizione di centrodestra non trova spazio nel manifesto programmatico della premier: "Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita", ha promesso, partendo subito dal rinnovo delle misure in scadenza a fine anno nella prossima legge di bilancio. Di tempo d'altronde non ce n'è tanto, ma più che altro non ci sono le risorse. E per aumentare le pensioni minime a un livello dignitoso servono già diciotto miliardi, secondo i calcoli della stessa leader di Fratelli d'Italia, pubblicati in un suo vecchio intervento su Libero. Eppure sembrava più facile a dirsi che a farsi: "Credo che le pensioni minime e sociali e di invalidità siano inadeguate e che le risorse per renderle adeguate, ad esempio all'aumento dell'inflazione, si possano trovare in un sistema che spende centodieci miliardi l'anno in bonus inutili e che spende fino a 780 euro di reddito di cittadinanza per perfettamente abili a lavoro e da 270 euro ai pensionati", disse ad agosto. C'è poi da scongiurare la legge Fornero e si starebbe ragionando su una revisione del meccanismo di quota 102, partendo magari dalla quota 41 anni su cui spinge la Lega. Al 31 dicembre 2021 la Quota 100 approvata dal governo gialloverde era costata 12 miliardi. Quota 41 le stime più ottimistiche parlano sette miliardi. Dove trovarli?
Sul lavoro la premier ha poi ribadito in aula la promessa di mettere mano finalmente al cuneo fiscale: "Il nostro obiettivo è arrivare progressivamente a un taglio di almeno cinque punti, due terzi lato lavoratore un terzo lato azienda, per i redditi più bassi fino a 35mila euro". In campagna elettorale Meloni aveva promesso una sforbiciata al divario tra costo del lavoro e reddito percepito in busta paga, dal valore di sedici miliardi. A luglio, in una intervista al Sole 24 Ore fece intendere che la misura poteva subito trasformarsi in realtà: "Dall'inizio dell'emergenza Covid abbiamo speso 200 miliardi in deficit, crede davvero che non si potevano trovare 16 miliardi per il cuneo? È una questione di scelte", ma la scelta almeno per ora è rinviata e il governo di centrodestra adotterà un approccio graduale per ridurre il cuneo. Nonostante per Meloni il tema del lavoro sia da sempre una "priorità", parola il cui significato non si sposa con l'esigenza del rinvio.
Il diavolo è nei rimandi. Nel corso del suo intervento a Palazzo Madama, la premier ha dichiarato che "occorre immaginare una tassazione che favorisca un rapporto equilibrato tra quanto si fattura e il numero dei dipendenti. Lo abbiamo sintetizzato con 'più assumi e meno paghi'. Deve essere conveniente assumere. Si può immaginare una superdeduzione del costo del lavoro partendo dal 120% per arrivare al 150%". Ma ad agosto al posto dell'immaginazione c'era un convinto senso di realtà: "Per noi vale il principio del 'chi piu' assume, meno tasse paga', è un obiettivo che vogliamo raggiungere nel corso della legislatura ma da subito ci impegniamo a introdurre un meccanismo di superdeduzione del costo del lavoro per chi aumenta il numero degli occupati rispetto agli anni precedenti".
Benché noto, il problema delle risorse resta: Giorgia Meloni con ogni probabilità si limiterà ad approvare una manovra di bilancio entro la fine dell'anno che eredità il rinnovo delle misure adottate fin qui dal Governo Draghi e che ammontano, insieme alle spese indifferibili e alcune misure tampone estrapolate dal programma di centrodestra, a quaranta miliardi circa. Ma era stata Meloni stessa a criticare gli effetti degli interventi tampone, che potevano andar bene a febbraio ma poi andavano sostituiti da interventi di sistema per una politica energetica complessiva "perché non avremo sempre a disposizione cinque o sette miliardi per il caro bollette". E invece al Senato la premier ha rispolverato la misura tampone per eccellenza, la tassa sugli extra-profitti introdotta senza molte fortune da chi l'aveva preceduta, Mario Draghi: per aiutare famiglie e imprese ad affrontare il caro bollette servirà recuperare "risorse nelle pieghe del bilancio, ma principalmente recuperandole dagli extraprofitti con una norma che io credo vada riscritta, e dall'extragettito che lo Stato comunque ricava dall'aumento dei costi dell'energia". In altre parole, "penso che occorra lavorare con molta puntualità con interventi ben calibrati".
Probabilmente chi ha memoria dell'intervento di Meloni di agosto a Ceglie Messapica sarà rimasto spiazzato. In piena estate l'allora candidata premier nel pieno della campagna elettorale propose "una cosa per cui non serve lo scostamento: parametriamo le bollette di quest'anno su quelle dell'anno scorso e tagliamo tutti gli oneri allo Stato. Lo Stato non ci può guadagnare sul caro bollette. Sono pronta ad approvarla lunedì: può tagliare il costo delle bollette del 30%", disse alla kermesse di Affari Italiani. A Catania Meloni fece un'ulteriore proposta: "Io sono per le utenze di cittadinanza, non per il reddito. Perché cittadini non possono restare senza energia a casa. Domani sono pronta ad andare in Parlamento per discutere del taglio del costo delle bollette. Lo Stato può tagliare le imposte sulle bollette per esempio".
Premesso che i contribuenti con un Isee basso già godono del bonus sociale integrato ed esteso fino alla fine del 2022 dal Governo Draghi, anche ammesso che la detassazione delle fatture per le utenze energetiche venisse estesa a tutti consumatori senza distinzioni di reddito non contribuirebbe, se non in minima parte, ad abbassare gli ingenti costi che tutti stanno affrontando in questi giorni. La parte fiscale delle bollette si compone di oneri di sistema e tasse. Gli oneri di sistema sono già stati azzerati da tempo dal precedente esecutivo. Restano le imposte: le accise e l'Iva. La prima si applica alla quantità di energia consumata ma fino a 150 kilowattora scatta l'esenzione dal pagamento, oltre si paga ma in valore assoluto si tratta di 0,022 euro per kWh, indipendentemente dal costo della bolletta (si applica alla quantità, non al costo). Poca roba, quindi. Rimane l'Iva: attualmente per le utenze domestiche l'imposta sul valore aggiunto è pari al 10%, per quelle non domestiche è pari al 22% anche se alcune attività produttive godono dell'aliquota ridotta al 10%. Sui consumi di gas, il Governo Draghi è già intervenuto riducendo l'Iva al 5%.
Ma l'obiettivo promesso da Meloni, anche in caso di detassazione delle utenze, di certo non arriverebbe a un taglio degli importi del 30%. Secondo le stime di Arera, ad oggi il 79,1% della fattura se ne va per coprire i costi per la materia prima, il 9,3% per le spese di trasporto, il restante 11% in imposte (gli oneri di sistema che prima pesavano il 24% sono stati già cancellati). Nel lungo intervento della premier si è perso anche l'impegno ribadito più volte di voler introdurre un credito di imposta per le bollette delle aziende pari sull'unghia all'aumento del costo dell'energia. Anche questa era una priorità, come pure lo è - "assolutamente prioritario" - il contrasto dell'inverno demografico e della bassa natalità. "Quando si mette al mondo un bambino si fa un favore allo Stato, che ti deve per questo ripagare e ringraziare", disse Meloni a settembre. "In Italia non siamo all'inverno demografico, siamo alla glaciazione. Se andiamo avanti così il nostro sistema di welfare non può reggere e la nostra civiltà rischia di scomparire. Il Pil demografico è assolutamente una priorità. Serve, ad esempio, una tassazione che tenga conto dei componenti del nucleo familiare, un sostegno alle neo mamme, una apertura più lunga degli asili nido". Promesse ribadite da Meloni in aula: "È un nostro impegno aumentare gli importi dell'assegno unico e universale e di aiutare le giovani coppie ad ottenere un mutuo per la prima casa, lavorando progressivamente per l'introduzione del quoziente famigliare". Stesse identiche parole, se non fosse per quel 'progressivamente'...