di Giorgio Merlo
Forse sbaglia il sociologo Luca Ricolfi, attento e puntuale osservatore delle vicende politiche italiane. La sinistra italiana, cioè il Pd - al netto del partito populista, cioè i 5 stelle, che momentaneamente si sentono di sinistra - non è affatto "antipatica". Anzi, ciò che capita nel Pd, per l'ennesima volta, rientra perfettamente nella dimensione della simpatia. Se non addirittura della goliardia.
Ma andiamo con ordine. Ci sono dei passaggi che ormai tutti gli osservatori conoscono a memoria e che rientrano in un copione che possiamo tranquillamente tratteggiare e riassumere in una sorta di "decalogo". Innanzitutto si parte quasi sempre da una sconfitta elettorale e quindi politica del gruppo dirigente uscente. Un passaggio che, purtroppo, avviene quasi puntualmente dopo la bella ed entusiasmante stagione politica guidata da Valter Veltroni. Dopo la sconfitta parte l'auto analisi. Di norma si scaraventa sul segretario uscente la responsabilità politica della disfatta elettorale. Dopo, come ovvio, aver condiviso tutti all'unanimità la strategia del partito praticata sino a quel momento. Le svariate e molteplici correnti - il numero complessivo non è facilmente censibile perchè si moltiplicano vertiginosamente - annunciano solennemente che da adesso in poi "si cambia". E tutti giurano che il partito, dopo l'ennesima sconfitta, rivedrà profondamente l'assetto correntizio interno. In pratica, e qui comincia ad arrivare la simpatia, sempre le stesse persone annunciano sempre il medesimo cambiamento radicale di comportamento e, di conseguenza, della proposta politica.
Dopodiché parte il dibattito vero negli organismi di partito. I capi corrente -o capi tribù- nel frattempo tutti nominati parlamentari nella quota proporzionale per la quinta, sesta o settima legislatura, si accordano sulla necessità improrogabile di dare il via al ricambio generazionale e ad un profondo rinnovamento del linguaggio e del modo di coinvolgere la mitica società civile. Ed ecco che arriva, altrettanto puntuale, il cosiddetto "soccorso esterno". La sinistra televisiva, culturale, accademica, alto borghese, giornalistica, editoriale e salottiera comincia a farsi sentire. Sempre le stesse persone da ormai svariati lustri e sempre attraverso i soliti filtri televisivi e giornalistici.
Parte l'accusa, di norma non rivolta particolarmente ai capi corrente e al partito nel suo complesso ma al nemico esterno e minaccioso da cui difendersi. È persin inutile individuarlo: ovvero, del ritorno dell'eterna "postura fascista". È stato così con la DC, poi con Berlusconi, poi con Salvini, poi addirittura con Renzi. Figurarsi con Giorgia Meloni e la coalizione di centro destra. Si ritorna, dunque, nel partito e i capi corrente - sempre loro, come ovvio - si accordano sulle modalità organizzative del percorso da intraprendere. Le parole cambiano ma la prassi è sempre la stessa: rifondare; ripartire; ricostituire; autorigenerazione; rinnovare e l'immancabile cambiare.
Insomma, si riparte da zero. Chi riparte? Come ovvio e scontato sempre gli stessi che nel frattempo - lo ripeto - sono stati tutti eletti alle elezioni appena celebrate. Individuato il percorso decollano le candidature e le autocandidature. Che rispondono al solito modello. E cioè, in un partito militarmente ed organicamente correntizzato, le candidature alla segreteria nazionale, e anche locale, rispondono ad un solo ed esclusivo criterio: con la candidatura si forma un'altra corrente che ti permette di chiedere una pezzo di candidature alla prossima tornata elettorale. Come ovvio, tutti i candidati alla segreteria promettono, altrettanto solennemente, che si tratta di avviare un percorso contro le correnti e di puro servizio al rilancio politico, culturale e programmatico del partito e bla bla bla. Fatte le candidature decolla il rito del confronto con la periferia.
E qui scatta la simpatia, si fa per dire. Ovvero, la passionalità della base fa emergere, concretamente, quali sono i difetti e le difficoltà che impoveriscono e indeboliscono il partito. A livello nazionale e a livello locale. E i vari esponenti delle molteplici correnti e bande interne si assumono la responsabilità che adesso si cambia per davvero. Senza attenuanti.
E finalmente arrivano le primarie. Le correnti nel frattempo si sono riposizionate. I cartelli elettorali dei vari candidati costruiti. Le quote per gli organismi di partito e le prossime candidature pattuite. Tutti promettono il cambiamento - pardon, questa volta Letta ha parlato di "rigenerazione" - e quindi si possono celebrare le fatidiche e dogmatiche primarie con una relativa tranquillità. E si arriva, per fortuna, all'ultimo passaggio. Si fanno le primarie. I capi corrente sbandierano la grande pagina di democrazia del partito e giurano, questa volta in pompa magna, che il Pd resta l'unico argine contro il ritorno del male. Cioè del fascismo, della deriva illiberale, della svolta autoritaria, della concentrazione del potere, della compressione dei diritti, della riduzione della libertà, della crisi della democrazia che sta preparando la solita destra. Vabbè, il solito copione che avviene dal 1948 dopo la vittoria schiacciante di De Gasperi e della Dc.
Dopodiché, e arriviamo al tocco finale, una volta eletto il segretario e fatti gli organismi applicando scientificamente il metodo della divisione correntizia e delle fedeltà ai vari capi corrente, si riparte con la nuova stagione politica sino alla prossima sconfitta elettorale che prevederà sempre il "decalogo" a cui ho fatto riferimento in questo breve scritto. Con una sola eccezione: la prossima volta cambia il verbo della ripartenza. Ditemi voi se non è un percorso simpatico. Almeno finché il centro da un lato e la sinistra populista dall'altro non ridurranno questo partito a un peso elettorale con una sola cifra...