di Eugenio Marino
"Con santa pazienza/ ho dovuto aspettare/ con quanta buona fede/ sono stato ad ascoltare./ Cara, cara democrazia/ sono stato al tuo gioco/ anche quando il gioco/ si era fatto pesante./ Così mi sento tradito/ o sono stato ingannato [...]/ Cara democrazia/ ritorna a casa che non è tardi".
Le parole sono di Ivano Fossati, ma suonerebbero benissimo in bocca a Lula se si pensa alla storia recente del suo Paese e alla sua parabola politica.
Lula è stato il fondatore di un Partito socialdemocratico, che rappresenta il mondo del lavoro, che ha rifiutato ogni tipo di lotta armata e di violenza per raggiungere il governo del Paese e ha accettato e rafforzato il sistema democratico in un Continente dove ancora oggi la violenza non è del tutto bandita dai sistemi di potere o da chi vi è escluso. Ha partecipato per tre volte alle elezioni presidenziali, perdendole. Fu sconfitto da Cardoso nel 1994 e nel 1998 e sconfisse Serra nel 2002 e Alckmin nel 2006.
Ha governato per due mandati consecutivi quel grande e complicato Paese, accettando il sistema economico-finanziario, rispettando tutte le organizzazioni internazionali e muovendosi al loro interno senza estremismi, ma con politiche progressiste, di Sinistra e di redistribuzione del reddito, dimostrando che si può avere maggiore equità e al contempo far salire tutti gli indicatori economici e la ricchezza diffusa, modernizzando il Paese, rafforzando la democrazia e conservando e accrescendo il consenso. Sì, perché alla fine del suo secondo mandato il consenso del presidente-statista operaio, in una società globale capitalista e iperspecializzata, era all'80%. Tanto che in molti si aspettavano, o gli chiedevano, di cambiare la Costituzione (pratica non sconosciuta in Sud America e non solo) per candidarsi a un terzo e sicuro mandato.
Cosa che Lula non ha fatto, per rispetto della democrazia, lasciando il passo alla prima donna presidente di quel Paese, Dilma Roussef, che vinse primo e secondo mandato. E che fu poi spodestata con un discutibile impeachment giudiziario, motivato da accuse di corruzione che non hanno portato a nulla, se non alla ingiusta incarcerazione di Lula, a quasi due anni di prigionia che gli hanno impedito di partecipare alle passate elezioni e ai quattro anni di presidenza Bolsonaro: una presidenza autoritaria sul piano democratico, fallimentare sul piano economico, sciagurata e irresponsabile nella gestione del Covid, dannosa per il benessere del Pianeta con il disboscamento dell'Amazzonia, iniqua sul piano sociale e profondamente divisiva. Presidenza resa possibile grazie al giudice Moro, lo stesso che subito dopo le elezioni dismise la toga con la quale aveva incarcerato ed escluso Lula dalle elezioni e divenne ministro della giustizia di Bolsonaro.
Scriveva il poeta brasiliano Mario Quintana: "Non viene da te quella tristezza,/ ma dai cambiamenti del Tempo,/ che ora ci porta speranze/ ora ci dà incertezza...".
Ecco, il Brasile degli ultimi vent'anni ha visto alternarsi incertezza e speranza. Moro e Bolsonaro sono stati il rischio democratico, economico e sociale, Lula è la speranza. Per ciò che ha già dimostrato nella sua vita e nelle sue presidenze in termini di pieno e convinto rispetto della democrazia e delle regole: quando queste sembravano non funzionare correttamente e condannarlo; in due anni di ingiusta prigione; nel suo cercare e ottenere giustizia nelle aule dei tribunali e non nelle piazze o nelle urne.
E per ciò che è riuscito a fare in queste elezioni e in un sistema presidenziale a doppio turno.
Lula non ha corso da solo col suo partito al primo turno per poi chiedere il voto utile ai candidati esclusi al secondo. Ha lavorato da subito a unire tutte le forze democratiche per riportare il Brasile alla pace sociale, al rispetto pieno di quella "gemma imperfetta" che è la democrazia e che Bolsonaro aveva piegato al suo pericoloso autoritarismo.
Lo ha fatto costruendo un dialogo con i suoi avversari e contendenti storici già citati: da Cardoso a Serra e Alckmin (che ora sarà il suo vice), mettendo davanti a tutto il pieno ripristino della democrazia partecipativa e rappresentativa.
Ora diversi pigri editorialisti italiani (dai quali si salva la solita Lucia Capuzzi), che scrivono di Lula più per parlare delle dispute italiane "degli sconfitti del 25 settembre" che per capire e spiegare a noi lettori le importanti vicende del Subcontinente e quanto queste incidano nella geopolitica dei prossimi anni o cosa cambiano o potrebbero cambiare nei rapporti con Ue, Cina, Russia e Stati Uniti, spiegano che in Brasile mancano i liberali e si rammaricano che Cardoso abbia 91 anni o che la vittoria di Lula "non è un trionfo" e che, al contrario, c'è stata una "grande rimonta" di Bolsonaro.
Mi permetto di suggerire un'altra prospettiva: nelle passate presidenziali del 2018 Bolsonaro raccolse il 55,13% dei consensi prendendo 57.797.847 voti, mentre il candidato progressista, Fernando Haddad, si fermò al 29,87% con 47.040.900 voti.
Domenica Bolsonaro, dopo quattro anni di governo, è sceso al 49,1% raccogliendo 58.206.354 voti, mentre Lula ha fatto salire il fronte democratico e progressista al 50,9% portandolo a 60.345.999 voti. Quindi rimontando ben 22 punti percentuali e 13.305.099 voti rispetto al 2018, a dispetto di Bolsonaro che perde 6 punti percentuali pur guadagnando solo 408.507 voti assoluti sul 2018.
Inoltre, Bolsonaro risulta l'unico presidente uscente a non riuscire a farsi riconfermare per il secondo mandato e Lula l'unico presidente del Brasile a farsi rieleggere per la terza volta e con il più alto numero di voti nella storia della democrazia brasiliana, senza tuttavia riuscire ad avere una maggioranza in Parlamento, seppure risicata: situazione che costringerà a continue mediazioni, a probabili fenomeni parlamentari di corruzione, tensioni legislative, ricatti politici e prove di forza da parte dello sconfitto, ecc..
E in questa condizione, il presidente Bolsonaro non ha ancora riconosciuto chiaramente e pubblicamente la vittoria di Lula, come da consuetudine si fa nelle democrazia sane e mature o come fanno i politici sinceramente democratici.
E allora sì, ha proprio ragione Fossati quando parla di "democrazie pubblicitarie": "Ahi, che pessime orchestre/ che brutta musica che sento./ Qui si secca il fiore e il frutto/ del nostro tempo./ Sono giorni duri/ sono giorni bugiardi./ Cara democrazia/ ritorna a casa che non è tardi". E a casa, questa volta, è tornato Lula, la speranza.