C'è un buco nel complesso sistema di sanzioni imposto alla Russia dopo l'invasione dell'Ucraina. Ci crederete oppure no, ma quel buco si trova in Sicilia. Per la precisione a Priolo Gargallo, diecimila abitanti a una manciata di chilometri da Siracusa, costa orientale. Qui, da mesi, come racconta un'inchiesta del Wall Street Journal, arrivano indisturbate milioni di tonnellate di petrolio russo, anche di più di quelle che arrivavano prima del 24 febbraio. Vengono raffinate nel locale polo petrolchimico, il secondo più grande d'Italia, e quindi commercializzate sotto forma di benzina, gasolio e cherosene. Un buco che rende l'Italia quarto importatore petrolifero dalla Federazione su scala mondiale: subito dopo India, Cina e Turchia. Washington applica da marzo un duro embargo al greggio di Putin, ma non ai prodotti di derivazione petrolifera. Lukoil, secondo esportatore russo dopo Rosneft, lo sa bene. Per questo utilizza la raffineria siciliana di sua proprietà per mascherare l'origine dell'oro nero che passa di là e riesportarlo anche oltreoceano. Da dicembre, però, scattano le sanzioni Ue e il trucco svanirà. A rimanere col cerino in mano potrebbero essere i 10 mila lavoratori dell'indotto e i rifornimenti di mezza Sicilia, e in parte dell'Italia. A meno che la coppia Giorgetti-Urso non decida per una garanzia pubblica firmata Sace o addirittura autorizzi la nazionalizzazione. C'è meno di un mese di tempo per salvare la raffineria.
Chi l'avrebbe mai detto che un paesino sperduto della Sicilia più profonda finisse sulle headlines del Wall Street Journal, quotidiano di riferimento dell'omonima piazza d'affari newyorchese. Il fatto è che la seconda compagnia petrolifera più grande di Russia (la prima tra le private), Lukoil, spedisce in Sicilia greggio da raffinare. Il polo petrolchimico di Priolo è controllato da Isab, società italiana, a sua volta in mano a Litasco, fiduciaria svizzera, a sua volta riconducibile al gigante russo. Da qui, il greggio viene raffinato (benzina, nafta, diesel, cherosene e altri prodotti petrolchimici), diventando prodotto "italiano". Esiste infatti, nel mercato dell'oro nero, una consuetudine legale secondo cui l'origine ufficiale del petrolio cambia con la sua raffinazione. Regole appartenenti al Novecento, legate a delicati equilibri economici e geopolitici del passato, oggi scappatoia, cavallo di Troia, nelle mani dei russi. Già, perché se il petrolio della Lukoil è italiano, significa che le sanzioni non si applicano.
Oltre al danno, c'è persino una beffa: la raffineria di Priolo, fino a prima della guerra, importava greggi da più paesi. Almeno 15: dalla Russia ma anche da Turchia, Iraq, Norvegia, Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Stati Uniti e Brasile. Circa 150 mila barili al giorno. Solo una buona parte, ma minoritaria, il 30%, arrivava dalla Russia. Ora, quasi il 95% del crude lavorato a Priolo arriva da Lukoil. Le restanti briciole sono kazake. In più, complice il blocco di altre valvole di esportazione, Lukoil ha intensificato le spedizioni in Sicilia: a fine settembre erano 320 mila barili al giorno di media. Carichi più che raddoppiati rispetto alla fase pre-conflitto. L'Unione Energie per la Mobilità fa notare, tra l'altro, che tra i vari paesi che applicano sanzioni alla Russia, l'Italia è l'anello debole della catena: da inizio 2022 l'import di petrolio russo è aumentato di quasi il 140% rispetto allo stesso periodo del 2021. E buona parte di questa crescita è dovuta proprio a Priolo. Ora siamo ufficialmente il quarto paese per importazioni di petrolio da Mosca dopo India, Cina e Turchia, tutti paesi che come noto non aderiscono al blocco occidentale anti-Putin. Magra consolazione: la maggior parte di quei barili, una volta raffinati, vengono poi riesportati all'estero. Non è tutta colpa dell'Italia.
È il paradosso di queste sanzioni. Sapendo che la raffineria è di proprietà di un colosso petrolifero russo, le banche europee hanno chiuso per precauzione – tecnicamente si dice overcompliance, ossia eccesso di cautela – quasi tutte le linee di credito sulle quali il polo faceva affidamento. Isab ha smesso di colpo di importare da altri paesi, potendo contare, da marzo in poi, solo sui rifornimenti della società madre. I barili, ora, arrivano dai terminal portuali russi di Novorossiysk (mar Nero), Primorsk (Baltico) e Varandey (Artico). Tutta roba di Lukoil. E i russi possono continuare a esportare i loro prodotti raffinati negli Stati Uniti aggirando l'embargo imposto da Joe Biden a marzo, dato che il divieto di importazione, per il dipartimento del Commercio Usa, non vale su tutti quei prodotti, seppur di origine russa, che sono stati appunto lavorati e confezionati sul territorio europeo. In questo modo Lukoil può continuare, indirettamente, a vendere benzina, gasolio ecc. ecc. presso consumatori americani. 5 milioni di barili esportati dalla Sicilia agli Stati Uniti secondo lo stesso Wall Street Journal. Con destinazione, in particolare, il terminal petrolifero di Baytown, pochi chilometri fuori Houston, Texas, controllato dal gigante ExxonMobil. Come se nulla fosse. Insomma il buco nelle sanzioni c'è, ma è in parte voluto.
Mesi che si va avanti così, ma prima o poi i nodi sarebbero arrivati al pettine. Perché a partire dal 5 dicembre entreranno in funzione le sanzioni sul petrolio russo volute dall'Unione Europea. E queste fermeranno l'importazione anche del greggio di Lukoil in Sicilia. Buco coperto, quindi. Ma a rischiare di rimanere col cerino in mano è il polo petrolchimico siciliano, il secondo più grande d'Italia – gestisce il, 20% della raffinazione nazionale, dieci milioni di tonnellate l'anno, nonché quasi la metà dei carburanti in commercio sull'isola – e il quinto d'Europa. Mille dipendenti ma un indotto, in tutta l'area, di circa 10 mila addetti, cioè buona parte della forza lavoro dell'intero siracusano. Il 18% dell'energia elettrica siciliana arriva sempre da lì. Secondo quanto afferma la stessa Isab, l'attività economica collegata al polo petrolchimico conta per il 51% del Pil prodotto nella provincia, seicento milioni di euro l'anno. L'8% del Pil regionale dell'isola. Eccoli gli effetti collaterali delle sanzioni anti-Putin che battono lì dove fanno più male. Se Priolo dovesse fermarsi, andrebbe tutto in fumo, e a catena anche altre aree del paese rischiano di subirne le conseguenze. Versalis è in prima fila. A Priolo il leader della chimica di Eni ha costruito alcuni impianti.
È corsa contro il tempo. Perché non solo manca un mese o poco più all'entrata in vigore delle sanzioni. Ma lo stesso pacchetto Ue prevede che l'ultimo ordine di greggio russo per un paese europeo possa partire entro il limite massimo del 7 novembre. Tra cinque giorni, la seconda raffineria più importante d'Italia potrebbe ritrovarsi a secco di ordinazioni. Grosso problema perché c'è il rischio di blocco dell'attività. Anche brevi interruzioni potrebbero essere intollerabili nel funzionamento di un polo petrolchimico come quello di Priolo. Il governo italiano si muove. Il giorno stesso dell'insediamento dell'esecutivo di Giorgia Meloni, Giorgetti e Urso si sono visti a Palazzo Piacentini per il passaggio di consegne al Mise. Il primo, ministro uscente dello Sviluppo economico, si è trasferito a pochi passi da via Veneto, traslocando alla guida del Mef. Il secondo è subentrato con la denominazione ufficiale di ministro dello Imprese e del Made in Italy. Tra i dossier in cima alla pila di cui i due hanno parlato c'era ovviamente Priolo.
Già mesi fa, a causa del surriscaldamento delle sigle sindacali sulle non incoraggianti prospettive future, si ventilava la possibilità di dichiarare lo stato di crisi complessa, che consentirebbe lo sblocco di una serie di aiuti da parte dello Stato. Ora, col nuovo esecutivo, Urso apre a un possibile intervento della Sace, l'agenzia controllata da via XX settembre, specializzata nel fornire garanzia a imprese italiane sul credito all'export. Ipotesi, quella targata Sace, che è stata al centro di un tavolo a Palazzo Baracchini alla presenza di rappresentati Unicredit e Intesa San Paolo. La ripresa dei finanziamenti a Priolo verrebbe garantita dallo Stato. Questa potrebbe già essere una soluzione di compromesso in attesa di capire cosa fare nel medio periodo. Si parla infatti della possibilità di acquisizione statale della raffineria. Una nazionalizzazione, quindi. Comunque, lo stesso Urso invita alla cautela, preferendo parlare a "cose fatte".
Ma un primo passo è stato fatto proprio dal dicastero guidato da Giorgetti che ha preso la decisione tecnica, tramite il comitato ministeriale di sicurezza finanziaria, di diffondere al mercato una cosiddetta comfort letter tramite la quale dichiara ufficialmente, rispondendo a un'istanza della stessa raffineria Isab, che la società interessata non è sottoposta a nessuna misura restrittiva da parte dell'Ue. Mossa che dovrebbe tranquillizzare e alleggerire la posizione delle banche creditrici nei confronti di Priolo. Altra ipotesi è quella di favorire l'intervento di un cavaliere straniero. Alcuni fondi americani, nel 2021, acquisirono raffinerie Shell nel nord Europa. E questa potrebbe essere anche una soluzione, dato che la stessa Lukoil, il colosso-madre della Isab di Priolo, è in vendita da tempo. In particolare i suoi asset in Occidente. Precedenti, anche molto recenti, ci sono in Germania, con le raffinerie in mano a Rosneft nazionalizzate da Berlino dopo lo scoppio del conflitto. Soluzione che non ha mai scaldato il governo Draghi, ma ora, con Meloni e la ridenominazione del Mise in Mimi, che è tutta un programma, la partita si riapre. Nazionalizzazione che tra l'altro non dispiace anche a pezzi di Partito Democratico, con il senatore siracusano Antonio Nicita che propone una partecipazione azionaria pubblica in un contesto dove potrebbero entrare in gioco altri soggetti, tra cui fondi internazionali. Insomma, da qui al 5 dicembre è corsa contro il tempo, ma gli elementi per salvare Priolo ci sono tutti, e soprattutto chiudere il buco da dove passano i petrodollari di Putin.