di Vincenzo Vita
L'entrata dell'ex direttore del Tg2 della Rai Gennaro Sangiuliano nella compagine di governo -come ministro della cultura- è come il colpo di inizio della probabile girandola della e nella ragnatela del servizio pubblico.
Se è verosimile che l'abile neo presidente del consiglio Meloni non abbia intenzioni di strafare subito, non c'è da aspettarsi niente di buono. L'azienda di viale Mazzini di Roma, infatti, è considerata trasversalmente un bottino prelibato, un simbolo della presa del palazzo, d'inverno o d'autunno che sia.
E si sa che la conquista dell'apparato mediale appartiene ai desideri del ceto politico, che suppone di incrementare i propri consensi mettendo le bandierine sulle testate. In verità, numerosi studi hanno dimostrato che più di un minuto di intervista con lo sguardo in macchina e la recitazione di una filastrocca contano le innumerevoli trasmissioni della giornata (il cosiddetto day time), che formano coscienze e clima di opinione.
Va detto che la strisciata di programmi di intrattenimento è omologa: qui il telecomando può cercare – invano- un canale che faccia la differenza. Eccezioni a parte.
Assisteremo, quindi, prima o poi all'arrembaggio. Del resto, la Rai talvolta anticipa le scosse del sistema politico, ma comunque le registra sempre fedelmente. Il tg1 è, naturalmente, la prima scelta della lottizzazione in camicia nera. Vedremo. Le organizzazioni sindacali si facciano valere. E, magari, il consiglio di amministrazione batta un colpo.
Già nei giorni passati, però, uno smottamento si è visto e sentito. Rainews ha mostrato prontamente un riposizionamento tanto nella conduzione del direttore quanto negli ospiti. Al confronto la concorrente Tgcom mostrava maggiore equilibrio. La carrellata conformista è piuttosto omogenea, con l'eccezione (senza esagerare) del Tg3 che ha probabilmente la forza di una storia diversa.
Tuttavia, se le testate rischiano di colorarsi di scuro, i conti dell'azienda pubblica viaggiano verso il profondo rosso. Tutto ciò avviene, tra l'altro, nel disinteresse generale, visto che l'attenzione è rivolta esclusivamente agli organigrammi.
Il bilancio dell'anno in corso potrebbe chiudersi con un deficit di parecchie decine di milioni, che i conti del 2023 – secondo le previsioni- peggioreranno ulteriormente.
Pesano il calo sensibile delle entrate pubblicitarie (oltre un miliardo di euro nel 2010, meno di 500 milioni oggi:-15,7% nel periodo gennaio-agosto rispetto al 2021), il vorticoso aumento dei costi dell'elettricità, l'incertezza sulla sorte dello stesso canone di abbonamento. Quest'ultimo è ormai un esercizio demagogico delle campagne elettorali, con l'effetto di rendere incerto il destino della risorsa fondamentale.
I conti in rosso sono l'avvisaglia di un problema strategico: qual è la missione della Rai? Di fronte all'ennesimo Risiko nella comunicazione classica con liti e nuove concentrazioni, davanti all'egemonia acquisita stabilmente dalle Big Tech e alla guerriglia dei social, l'ex monopolio ha l'onere di ridefinirsi e di reinventare visioni e progetti. L'audience è in decrescita e gli antichi 27 milioni di telespettatori del prime time sono un miraggio. Salvo che con le partite della nazionale di calcio o il Commissario Montalbano.
Uno strumento utile sarà il contratto di servizio (2023-2027), da scrivere alla luce dei movimenti del settore e dell'urgenza di disegnare l'identità pubblica nell'età crossmediale. Il digitale non è un'aggiunta, bensì una trasformazione.
Il quadro si sta velocemente modificando pure sotto il profilo tecnologico.
L'Unione internazionale delle telecomunicazioni (Uit) nel 2023 ricollocherà un blocco di frequenze oggi utilizzate dalla televisione (600 MHz) nelle fauci fameliche della telefonia. Che accadrà alla Rai?
Insomma, il destino sta attuando ciò che i privatizzatori hanno sempre sognato: una Rai ridimensionata e definitivamente assoggettata ai poteri esterni. Mediaset, complice e concorrente, non ride perché non va a gonfie vele. Però, sta al governo. E Giorgia Meloni non ha neppure menzionato il conflitto di interessi.
Intanto, uno spettro si aggira per l'Europa e incombe sul governo: il Media Freedom Act.
Tempi duri per il governo italiano, popolato di conflitti di interessi e già pronto ad usare il controllo sulla Rai regalato al potere esecutivo dalla legge voluta nel 2015 (n.220) da Matteo Renzi.
Sono in arrivo, infatti, una proposta di Regolamento e un'annessa Raccomandazione sulla libertà dei media.
L'European Media Freedom Act (EMFA) e l'allegato documento furono presentati lo scorso 16 settembre dai commissari dell'unione Vera Jourova (politiche sui valori e la trasparenza) e Thierry Breton (mercato interno). L'intenzione di Bruxelles è chiara: rendere più omogenea la tutela del pluralismo, dell'indipendenza, del ruolo del servizio pubblico, dei principi di trasparenza.
Gli obiettivi, del resto, sono ben elencati: armonizzazione delle discipline e delle scelte di autorità nazionali spesso asimmetriche e disomogenee; cooperazione nelle scelte regolatorie; impegno a facilitare la qualità dei media e ad ostacolare ingerenze proprietarie, eccessi di sorveglianza e conflitti di interesse; trasparenza nell'utilizzo delle risorse e nell'investimento pubblicitario da parte delle istituzioni pubbliche.
Il testo riguarda sia i mezzi di comunicazione classici, sia i servizi online per adeguare quest'ultimo settore alle recenti direttive comunitarie (Digital Services Act e Digital Markets Act).
In verità, proprio il capitolo sulle piattaforme richiede modifiche e ripensamenti. In particolare, gli articoli della sezione 4 (Provision of media services in a digital environment) incorrono in una contraddizione: per un verso si introducono norme limitative dello strapotere delle Big Tech cui sono messe in capo responsabilità sui contenuti che veicolano per tutelare le diverse tipologie di utenza, dall'altro si attribuisce agli oligarchi della rete una forte discrezionalità. L'aporia già si manifestò al tempo della direttiva sul diritto d'autore nel mercato unico digitale (2019/790 Ue), quando si attribuirono alle stesse piattaforme le facoltà coercitive. E si persevera.
Tuttavia, i due testi (la Raccomandazione si sofferma sugli aspetti delicati della indipendenza editoriale e suggerisce modalità concrete per difenderla) sono una buona base di discussione e rispondono di fatto alle distorsioni in atto in vari paesi che contrastano i punti cruciali del diritto all'informazione: dalla Polonia, all'Ungheria, alla Slovacchia, a Malta.
L'Italia si colloca da molti anni nella parte bassa della classifica. Abbiamo una forte concentrazione televisiva, l'azienda pubblica è controllata dai partiti delle maggioranze che si susseguono, l'editoria è in crisi e in poche mani «impure» salvo poche eccezioni (tra cui il manifesto), piovono le querele temerarie contro chi fa con coraggio giornalismo di cronaca, il precariato è abnorme. Inoltre, i conflitti di interesse dilagano e il vulnus democratico creato dal rapporto privilegiato tra Mediaset e pezzi del governo non si è mai sanato.
L'arrivo prossimo venturo dei nuovi articolati da Bruxelles è un serio problema per la compagine diretta da Giorgia Meloni, che nel suo discorso di insediamento si è guardata dall'affrontare simili questioni.
L'Italia, insomma, rischia di indossare la maglia nera, e non solo per i trascorsi nostalgici.
Sulle indicazioni europee si è svolto un utile convegno lo scorso 28 ottobre presso l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni su impulso della commissaria Elisa Giomi e dello studioso Augusto Preta in rappresentanza dell'International Insitute of Communications. Si è trattato di un passaggio certamente funzionale a sollecitare un dibattito pubblico su faglie della crisi eluse o rimosse.
Si parla spesso di come fare opposizione alla destra, in parlamento e fuori. Un nodo cruciale di una lotta né effimera né congiunturale riguarda proprio l'immenso universo della cosiddetta infosfera.
E se il riferimento all'Europa è diventato un mantra o uno slogan strumentali, ogni tanto si offre l'occasione di trattare non di economia e finanza, bensì di conflitto nelle e sulle agenzie che costruiscono il clima di opinione e formano l'immaginario.