di Renato Cristin
A distanza di oltre trent'anni da quel 9 novembre 1989 in cui ebbe inizio l'abbattimento del Muro di Berlino, la ricorrenza odierna ha una tonalità del tutto diversa dalle precedenti. In realtà, la celebrazione della libertà simbolizzata dalla caduta del Muro era stata compromessa già dal 2020, a causa dell'imprevedibile e funesto deficit di libertà costituito dalla illiberale gestione della pandemia, ma oggi, a partire dal 24 febbraio 2022, a quel regresso se n'è aggiunto uno dalle conseguenze ancora più vaste, perché l'invasione militare russa in Ucraina ha mostrato il ritorno, al Cremlino, di una mentalità autocratica e perfino totalitaria che sapevamo non essere scomparsa ma che speravamo essere rattrappita; il riaffacciarsi cioè del sovietismo, non tanto nella sua forma ideologica quanto soprattutto in quella burocratico-militare. Se nei decenni scorsi la fiducia in un sostanziale allontanamento dall'epoca del totalitarismo comunista poteva trovare un fondamento nella realtà, oggi quel fondamento sembra essersi sgretolato, colpito dalla selvaggia gragnuola di missili lanciati contro il popolo ucraino e, in forma diversa ma complementare, dallo scellerato modo con cui, per affrontare la pandemia, molti governi occidentali hanno applicato una ricetta allogena e paradossale: la pratica comunista cinese come antidoto al virus cinese.
Da un lato la cinesizzazione della politica sanitaria e dall'altro la russificazione della guerra mostrano il riaffacciarsi del comunismo, a rendere scomoda ma al tempo stesso ancor più necessaria la riflessione sul senso del 9 novembre. Ora, per ovvie ragioni tematiche, non posso affrontare qui la genesi e le molteplici (tutte negative) conseguenze di questo schiaffo politico-sanitario inferto alla coscienza liberale dell'Occidente, e mi limiterò ai risvolti geopolitici del rapporto attuale fra il mondo occidentale (Europa in prima linea) e la Russia, ma la connessione fra queste due catastrofiche perdite di libertà è tracciata ed evidente.
Questo 9 novembre segna il primo anno di guerra in Europa dopo l'epoca della cortina di ferro; una guerra scatenata proprio dalla versione attuale di quelle forze che l'Occidente aveva tentato di seppellire sotto alle macerie del Muro. La guerra contro l'Ucraina è infatti una guerra del neo-sovietismo contro l'intera Europa; un evento la cui tragicità non ha ancora mostrato tutti i suoi effetti, con i quali dovremo fare i conti nei prossimi tempi, ma che già oggi possiamo definire come un drammatico arresto del processo avviatosi nel 1989 e in particolare del processo di avvicinamento tra Occidente e Russia. La causa di questo blocco è univoca e unilaterale, targata Cremlino, perché – almeno nello spirito dell'Occidente post Guerra Fredda – i contenziosi fra nazioni si risolvono con la diplomazia e non invece, come la Russia sta facendo, con l'uso delle armi.
Da qui possiamo vedere come questo 9 novembre cada sotto il segno di un ritorno del passato, come se le lancette della storia fossero state spostate indietro di mezzo secolo. È vero che, come insegna Giambattista Vico, l'orologio della storia non è irreversibile, nel male ma pure nel bene, e tuttavia è sempre uno choc assistere al ritorno della guerra reale (non più solo fredda, ideologica o propagandistica) sul suolo europeo. In Ucraina infatti la guerra è stata calda e vasta fin dall'inizio dell'invasione e poi via via sempre più rovente e sporca, fino alle violenze di massa e alle uccisioni di civili, alle vessazioni sulla popolazione mediante gli attacchi alle centrali elettriche e alle reti energetiche, perché il buio e il freddo diventano strumenti per fiaccare la resistenza dei civili e fomentarli, secondo le intenzioni russe, a sollevarsi contro il presidente Zelensky e il suo governo. Il terrorismo diventa prassi militare e il terrore obiettivo strategico.
Come i giacobini del 1789 ghigliottinavano a raffica qualsiasi avversario reale o presunto, nobile o borghese che fosse, istituendo il terrore come sistema di governo e di controllo, analogamente i neo-sovietici tentano di eliminare ostacoli esterni (come appunto il popolo ucraino, reo di non voler cedere parti del suo territorio e non assoggettarsi al protettorato del Cremlino) e di zittire gli interni (silenziando o incarcerando i dissidenti), instaurando il terrore e il controllo.
Con un crescendo sistematico, l'esercito della «Z» sta annichilendo i civili ucraini, non riuscendo a contrastarne i militari, colpendoli in modi esecrabili, pregni di infamia, di cinismo e di sadismo; e la dissidenza interna russa è imbavagliata in un modo che, per taluni aspetti ricorda la repressione sovietica. È come se il Muro fosse stato nuovamente, sia pur parzialmente, eretto: tutto come nella vecchia DDR, come nei paesi del blocco di Varsavia, come nell'Unione Sovietica. Questo 9 novembre porta con sé infatti lo spettro di una pratica ideologico-burocratica che, accanto a quella positivistico-burocratica che ha caratterizzato la politica sanitaria pandemica, speravamo potesse finalmente scomparire, almeno sul suolo europeo. Oggi, sulla carne viva (e sui moltissimi morti) del popolo ucraino vediamo gli effetti di questo fantasma, resuscitato da una duplice azione: da un lato l'espansionismo economico-militare (la Russia sta oggi muovendosi a tutto campo, perfino in America Latina), e dall'altro l'egemonismo ideologico-culturale, imperniato nella teoria dell'eurasianismo di stampo nazional-bolscevico.
Su questo doppio terreno, ideologico e militare, si può vedere una raccapricciante analogia con la volontà di sterminio che aveva caratterizzato l'uccisione di oltre cinque milioni di ucraini per mezzo della carestia (e di massacri che l'accompagnarono) decisa da Stalin e realizzata dall'armata rossa, concepita non solo come un mezzo rapido per soggiogare una nazione, ma anche come la via per eliminare un popolo: la carestia come strumento di genocidio. Tale infatti è stato l'Holodomor ucraino, e tale è stato giudicato da oltre venti nazioni, tra cui Australia, Canada, Città del Vaticano (fu Giovanni Paolo II, nel 2001, a volere e, nel 2003, a ratificare questa risoluzione), Colombia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Spagna, Stati Uniti, Ungheria. Molti Stati mancano ancora all'appello, tra cui Francia, Germania e Italia, che non vollero urtare la suscettibilità della Russia: una motivazione oggi insostenibile. Non riconoscere l'Holodomor sarebbe come non riconoscere il genocidio degli Armeni da parte della Turchia, con la differenza che il primo è quantitativamente cinque volte superiore rispetto a quest'ultimo. Celebrare la caduta del Muro significa anche ricordare gli orrori del comunismo, fra i quali l'Holodomor ha una triste posizione di rilievo e che va ricordato e condannato, dunque, con un atto ufficiale di giustizia storica che l'Italia non ha ancora compiuto e che immaginiamo sarà finalmente realizzato dalla Presidente Giorgia Meloni, a riparazione postuma e a monito futuro.
Lo spirito genocida sembra annidarsi anche in certe azioni attuali: come l'Unione Sovietica voleva annientare il popolo ucraino, così oggi la Russia vuole imporre ad esso un giogo che ne annulli la volontà nazionale. Per la Russia (zarista, sovietica e putiniana), l'Ucraina continua a rappresentare un problema irrisolto, nel quale si addensano svariati fattori e interessi: storici, politici, culturali, religiosi, economici, perfino psicologici, che concorrono ad azioni scellerate e aggressioni brutali, come appunto l'occupazione della Crimea nel 2014 e l'invasione su scala più ampia oggi. Per quanto riguarda lo scenario ucraino, la questione storica decisiva è dunque: come sciogliere questo nodo irrisolto che la Russia sembra ancora trascinarsi dietro? Intanto però le persone muoiono, anche nelle file dei coscritti dell'armata rossa; le città vengono distrutte; la popolazione ucraina è stremata; i profughi non possono rientrare; la porzione di crisi economica dipendente da questa guerra sta causando danni enormi in primo luogo all'Europa; la tensione fra l'Occidente e l'asse Cina-Russia-Iran è altissima.
E quindi, primario è fermare l'aggressione all'Ucraina. È possibile, oltre che auspicabile, che si arrivi a una pace che sia accettabile da parte dell'aggredito; ma è anche possibile che si debba arrivare a una sconfitta militare dell'aggressore. Se così dovesse essere, neutralizzare la macchina bellica russa potrebbe essere la condizione necessaria (e speriamo anche sufficiente) per bloccare la crescita del monstrum burocratico-finanziario neosovietico. L'Occidente deve assumersi questo compito non solo per salvare il popolo ucraino (e già questo sarebbe un motivo sufficiente), ma anche per proteggere se stesso e per ripristinare il pur accidentato processo storico avviato nel 1989.
In questa operazione di ricostruzione della libertà, la guerra e la pandemia sono intrecciate. In quest'ultima circostanza, i princìpi dell'Occidente avrebbero richiesto (e continuano a richiedere in ogni futura circostanza analoga) che si evitasse lo statalismo burocratico, che non si procedesse alla vaccinazione forzata con i connessi obblighi e ricatti psicologici e lavorativi, che non si arrivasse al controllo sistematico delle persone terrorizzandole con propaganda strumentale, che la scienza non fosse infangata da scienziati e da mosche cocchiere che diffondevano solo gli interessi della cordata scientifica dominante. Nel caso della guerra in Ucraina, quegli stessi princìpi devono spingere a difendere la libertà di un popolo contro l'invasore russo, schierandosi dall'unica parte possibile con tutti i mezzi necessari. Come si vede, affiora qui una discrasia, un'incongruenza: non si può fare strame della libertà individuale esercitando una politica sanitaria tirannica e pretendere poi di essere credibili difendendo la libertà del popolo ucraino contro la Russia, perché è lo spirito stesso della libertà che celebriamo il 9 novembre a evidenziare la contraddizione: la libertà va protetta e garantita sempre, anche quando sembra un valore acquisito, perché altrimenti il rischio è una deriva totalitaria e, nei due casi di specie, comunista.
Anniversario triste, dunque, che proprio perciò richiede uno sforzo supplementare da parte dell'Occidente; un'azione combinata: bellica, diplomatica, economica e culturale, per riallacciare il filo della lotta al totalitarismo e al comunismo variamente modellato, sia esterno sia interno al mondo occidentale. L'invasione dell'Ucraina deve spingere i governi occidentali a una resa dei conti con l'ideologia comunista e con le sue metamorfosi contemporanee, per onorare la memoria dei tanti eroici dissidenti dell'Unione Sovietica ieri e della Russia oggi (da Solženicyn a Bukovskij, da Anna Politkovskaja a Boris Nemtsov) o della Cina, come Wei Jingsheng, e per rinsaldare il patto di libertà che sta alla base della civiltà occidentale e che è sempre da riconquistare e riaffermare, pena pericolosi regressi come nel caso della restrizione della libertà per via sanitaria.
Perciò l'Occidente deve oggi realizzare concretamente l'idea di una «Norimberga per il comunismo», perché il virus totalitario non è stato debellato (come si è visto perfino nella gestione cinese di SARS-CoV-2 importata in Occidente), il meccanismo sovietico è ancora attivo e aggressivo, e l'ideologia comunista continua a insinuarsi nelle società occidentali, causando guasti profondi e incisivi, che occorre sanare al più presto, prima che diventino incurabili, prima che si affermi anche in Occidente il nuovo nazionalcomunismo (nella variante cinese e in quella russa, senza dimenticare la nuova e non meno inquietante variante globalista che oggi ha preso la forma di un assedio sanitario a quella libertà personale che era e deve continuare ad essere un perno assolutamente inamovibile nel mondo occidentale), prima cioè che la mentalità comunista vanifichi il plurisecolare sforzo per la libertà che l'Occidente ha compiuto e che, nonostante tutto e nonostante tutti i difetti interni, sta ancora tentando di fare.