Il Qatargate domina da qualche giorno le cronache dei quotidiani europei. Molti dettagli non sono ancora chiari, ma il caso è già percepito come uno dei peggiori scandali nella storia del Parlamento europeo. La ragione è intuitiva: la corruzione scuote alle fondamenta la fiducia nelle istituzioni, con il risultato di indebolire la pretesa morale al rispetto dell’obbligazione politica.
Una premessa, non di stile, è d’obbligo. Non importa quanto grave sia l’accusa, resta sempre ferma la presunzione di innocenza, fino a sentenza definitiva contraria, degli indagati. In questo caso, peraltro, la cautela è ancor più rilevante proprio per il tipo di professionalità finita al centro dell’indagine. Il politico e il lobbista svolgono un’attività che è volta a fornire la rappresentanza agli interessi di parte: certo, c’è una differenza tra svolgere un mandato elettorale e uno professionale, ma in entrambi i casi si tratta di una promozione di punti di vista che possono risultare controversi o problematici agli occhi della maggioranza dei cittadini. Una anticipazione di giudizio nei confronti della liceità di certe condotte, insomma, può condurre alla criminalizzazione di un tipo di discorso pubblico che fa invece parte del nostro sistema liberaldemocratico.
Contro la tentazione di trattare “esemplarmente” il politico (o il lobbista), si deve peraltro evidenziare che, per un verso, esiste sempre una differenza tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che invece non lo è. E, per altro verso, che le notizie che filtrano sui giornali sono soltanto una parte della storia. Per di più, è il punto di vista di un soggetto che è costitutivamente impegnato nel fare emergere i fatti a carico dell’indagato. Pertanto, è possibile che quegli stessi fatti, una volta sottoposti a processo di verificazione nel corso del contradditorio processuale, possano rivelarsi addirittura non sussistenti.
Se la questione delle responsabilità individuali impone la massima cautela, ciò non esclude la possibilità di svolgere una riflessione sulle condizioni di sistema che possono favorire le occasioni di corruttela. Anche qui, è d’obbligo una ulteriore precisazione. Per quanto appaia scandalizzante, una certa misura di corruzione è probabilmente endemica al sistema politico. Non si tratta di schermarsi dietro al “così fan tutti” – ci aveva provato, per primo e già senza successo, Francis Bacon, per difendersi dalle accuse di bribery mosse nei suoi confronti da Edward Coke – bensì di adottare una prospettiva realista. Se c’era un ladro persino tra i dodici apostoli, la legge dei grandi numeri dovrebbe rendere meno sorprendente la loro presenza in assemblee molto più numerose.
Il piano su cui si deve operare è, allora, quello della prevenzione. Regolamentare le attività di lobbying è certamente la prima cosa da fare, avendo cura di individuare criteri tassativi che consentano di distinguere tra lecito e illecito. Più in generale, però, è necessario ridurre le proverbiali occasioni di “peccato”, operando sul rapporto tra politica ed economia. Lo ha ricordato anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in un’intervista al Corriere: “La ricetta è sempre la stessa: semplificare le procedure e individuare singole competenze e responsabilità. Il groviglio consente a intermediari di intervenire nell’ombra”.
Limitare l’intermediazione pubblica, al contempo, salvaguardando la funzione di regolazione generale e astratta, è ancora una battaglia di modernizzazione e legalità.