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Nel 1994, quasi trent'anni fa, i giovani – e i giovanissimi – non avevano le scatole piene su chi fosse il più forte tra Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. Anche perché uno aveva 7 anni, l'altro 9. Entrambi, c'è da scommettere, sgattaiolavano nelle strade di Rosario (Argentina) come quelle di Funchal (Portogallo). E chissà, già cullavano il sogno di diventare il numero uno del pallone. Ma questa è un'altra storia.

Dicevamo 1994. Quell'anno si disputavano i Mondiali di calcio negli Usa. I ragazzini, nel campetto dietro casa o nei parchi, per chi aveva la fortuna di goderne, quando qualcuno tentava la giocata – se riusciva o meno, poco importava – si lasciavano andare a un urlaccio da mercato rionale, che suonava pressappoco così "oh, è arrivato Diego Armando Maradona" oppure "oh, ecco Pelé".

Il primo (morto il 25 novembre 2020) era un volto più che noto. Era il Calcio. Aveva guidato il Napoli a successi mai pensati prima, in Italia e in Europa. Inoltre, aveva alzato la Coppa del Mondo con la Nazionale albiceleste nel 1986 (gli inglesi ancora non hanno ingoiato il rospo, forse avrebbero preferito perdere le Falkland ma non quella partita) e nel 1990 aveva sfiorato il bis, perdendo in finale a Roma contro la Germania (ancora gli Azzurri non hanno smaltito l'uscita in semifinale proprio contro i sudamericani). Nel '94 Maradona era nuovamente sul pezzo, a vestire la maglia numero 10 della selezione argentina: un gol da capogiro contro la Grecia, una prova sontuosa contro la Nigeria (vittoria per 2-1, doppietta di Claudio Caniggia) e la positività all'esame dell'antidoping(vennero rintracciate alcune sostanze proibite, come l'efedrina. Stavolta la cocaina non c'entrava nulla) con la conseguente squalifica. Di lì in avanti del Diez è stato detto tutto. O quasi tutto.

Dell'altro, Pelé – all'anagrafe Edson Arantes do Nascimento, deceduto 82enne il 29 dicembre – i giovanissimi ne sapevano poco o nulla. Era più un personaggio leggendario che, di volta in volta, spuntava fuori dai racconti degli esperti (tali o presunti). Oppure negli anatemi de noantri, quelli fatti in casa, con qualche familiare intanto a convincere i più piccoli che "si stava meglio quando si stava peggio". Una figurina, insomma, che veniva lanciata sul tavolo, come quella di Lev Jascin, Bobby Moore, George Best, Alfredo Di Stefano, Johan Cruijff, Ferenc Puskás, Gigi Riva. "Questi erano dei campioni" veniva detto. E tutti a fare "sì" con la testa, come marionette. Anche perché non c'era Google per una qualche conferma live.

Eppure, Pelé – che ha chiuso la carriera calcistica nel 1977 con maglia del Cosmos, compagine americana, dopo una vita spesa per il Santos, squadra brasiliana di San Paolo – un assaggio alle giovani leve di metà anni Novanta lo aveva dato in tv, esattamente in un film, Fuga per la vittoria (1981), diretto da John Huston. Nella pellicola, in sintesi, il capo di un campo di prigionia organizza una partita di calcio tra tedeschi e prigionieri inglesi, che si trasforma a sua volta nell'opportunità di fuga per questi ultimi. Tra gli interpreti, ci sono anche Sylvester Stalloneche sfila i guantoni di Rocky Balboa, inventandosi portiere con le spoglie del tenente Robert Hatch e soprattutto altri calciatori: lo stesso Moore, ma pure Osvaldo Ardiles, Paul Van Himst, Kazimierz Deyna, Hallvar Thoresen, John Wark, Russel Osman, Kevin O'Callaghan, Mike Summerbee, Søren Lindsted. Gente ai più ignota, almeno ascoltando i brusii tra i banchi di scuola. Insomma, a un certo punto Pelé fa una rovesciata. Un gesto atletico da standing ovation che, puntualmente, veniva riproposto da chiunque – dai fusti appanzati a quelli scheletrici – nelle partitelle al mare. La sfera, invece che al sette, era diretta all'Isola del Giglio. E lì sì che era una fuga, ma dal proprietario del pallone, giustamente imbufalito.

Chiusa la parentesi, torniamo al punto di partenza. 1994. O meglio: 17 luglio 1994. Allo stadio Rose Bowl di Pasadena andrà in scena l'ultimo atto dei mondiali a stelle e strisce. Di fronte Brasile e Italia. L'attesa è snervante, soprattutto sapendo che nella piazza del paesello sarà allestito un maxischermo dove sarà trasmesso il match. Di prendere sonno non c'è proprio verso. Così, nello zapping che faceva la spola con l'alba, la Rai offriva un altro Brasile-Italia, di qualche anno prima. È il 1970, Mondiali in Messico: tutta la gara con la telecronaca di Nando Martellini, né un minuto in più, né un minuto in meno. Al 19esimo, su uno spiovente di Rivelino – uno che al pallone dava del "tu", sia chiaro – la sfera arrivava all'altezza del secondo palo. E all'improvviso fu Pelé: manco avesse le molle sotto i piedi, con un balzo imponente – nonostante i 173 centimetri di altezza – ha sovrastato il rude di Ruda (Comune del Friuli-Venezia Giulia), ovvero il granitico Tarcisio Burgnich. E palla alle spalle di un avvilito Ricky Albertosi. Nell'arco della sfida, il numero 10 sudamericano offrirà gli assist per il 3-1 di Jairzinho e il 4-1 di Carlos Alberto (il 2-1 sarà firmato da Gérson, per gli Azzurri in rete Roberto Boninsegna che regalerà il momentaneo pareggio).

Allora sì, Pelé è esistito. Eccome se è esistito: tre Mondiali vinti (1958, 1962 dove si infortunerà subito e, appunto, 1970), dieci campionati con il Santos, con cui alzerà pure due coppe Libertadores e due coppe Intercontinentali.

Stropicciati gli occhi, per molto tempo il dibattito – che ha riempito le scatole di giovani e giovanissimi mentre il nuovo Millennio si affacciava sulle nostre esistenze – è stato quello che finiva con la solita domanda: "È più forte Pelé o Maradona?". Chi fosse più incisivo, più iconico, più decisivo è un problema la cui risposta tende – e tenderà – a "più infinito". Entrambi sono andati in cielo, uno con la mano de Dios e l'altro salendo sulle spalle del malcapitato Burgnich. Uno, con la serpentina con cui manda al bar la Perfida Albione, nell'86, e l'altro con giocate ubriacanti che hanno devastato la psicosi dei difensori di mezzo mondo.

Ma il fatto che quest'ultimo fosse stato incoronato O Rei, forse, è da recuperare in un suo non-gol che però dà la stura della visione di insieme di questo grandissimo calciatore. Nel dettaglio, il frammento è accaduto ancora ai Mondiali del 1970, nella partita contro l'Uruguay: la palla che arrivava da sinistra, il portiere Ladislao Mazurkiewicz – considerato uno dei più forti nel suo ruolo – uscito alla disperata davanti all'attaccante sudamericano. Pelé, che guardava dall'altra parte e non fissava gli occhi di Mazurkiewicz, ha fatto sfilare il pallone alle sue spalle, è girato intorno all'estremo difensore e, da posizione defilata, ha calciato.

La sfera non è entrata per un non-nulla. "Meglio – ha commentato il giornalista Federico Buffa – perché sennò almeno una tribuna di quello stadio sarebbe venuta giù".