Di Franco Manzitti
Aspettando non Godot, ma l'assessore alla Cultura, che non arriva, mi sono venute spontanee un po' di riflessioni su questa città e sul suo destino così mutante, ma anche radicata nella sua tradizione atavica. E qual è la radice di ogni tradizione, di ogni ispirazione, di ogni mossa genovese se non le palanche? Siamo quelli che hanno inventato il tasso di sconto, le banche, che imprestavamo soldi ai potenti della terra, agli Imperi, che oggi tornano di moda in tempi di una guerra così vicina e così pericolosa. Il retaggio non si è perduto, anche se non abbiamo più perfino la nostra banca-madre e tanti soggetti finanziari, non solo negli scagni storici, ma anche negli sbracci finanziari più moderni e digitali.
Penso alle palanche, alla moneta, proprio partendo dalla cultura che non può certo essere solo in attesa dei suoi rappresentanti pubblici e politici, ma che potrebbe avere anche importanti spinte dai privati, da quelli che una volta chiamavamo mecenati e che finanziavano la cultura nelle sue diverse manifestazioni. Non ci sono più? Non spuntano neppure oggi che Genova scopre altri orizzonti, oltre a quelli storici del porto e delle industrie e dei servizi? Oggi intravvedo qualche mossa di avvicinamento, fondazioni, associazioni che cercano di promuovere il nuovo prodotto culturale, che vogliono lanciare la città e le sue bellezze sul grande mercato, ma per ora non di più.
Eppure Genova è sempre stata generosa e basta pensare a quella Diga, che oggi dobbiamo ricostruire e al suo finanziatore di fine Ottocento, il marchese Raffaele De Ferrari-Galliera, principe di Lucedio, ai suoi tempi una specie di Rotschild dell'epoca, grande uomo di finanza e di affari, costruttore di ferrovie in tutta Europa, che fece alla sua città un regalo incalcolabile per il valore che ancora sta producendo. E che dire di sua moglie, Maria Brignole Sale, duchessa di Galliera, che finanziò non solo l'Ospedale, ma una miriade di opere di beneficenza, assistenza, oltre a donare alla città Palazzo Bianco e Palazzo rosso, in pratica la benefattrice che rifece in un colpo solo il Welfare e la Cultura di Genova con i suoi capitali?
Oggi figure di questa stazza non ci sono più, anche se non si può dimenticare quella famosa frase di Romano Prodi, nel pieno della crisi industriale degli anni Ottanta, quando vacillava tutta l'industria parastatale: "Genova 'strippa' di soldi". Alludeva, l'allora presidente dell'Iri e futuro premier, ai depositi bancari di un popolo risparmioso, ai capitali di un establishment finanziariamente avveduto, alla tradizione profonda di una gente abituata a trattare la moneta con abilità quasi ancestrale. Ma ci sono ancora tante palanche sul piatto genovese, come i rapporti di Banca d'Italia spiegano sempre e come si può anche osservare semplicemente calcolando le operazioni che da anni l'impresa genovese in generale compie.
Non è il caso di sgranare il rosario delle aziende di ogni tipo e settore economico, che sono state vendute dai genovesi con contropartite stellari. Sarebbe doloroso e anche un po' depressivo questo elenco che si spiega con i tempi di una economia diventata globale, universale e nella quale la concorrenza diventa spietata. Ma si può immaginare che la contropartita di queste operazioni, che hanno anche un po' svuotato la caratura di tante tradizioni genovesi, è veramente un mare di palanche. Al quale si può aggiungere il frutto di una tradizione solida, tramandata di generazioni che hanno sempre accumulato con parsimonia e avvedutezza.
Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe lontano, ai tempi moderni, al nuovo rapporto tra generazioni, al sostegno che quelle mature devono dare ai giovani, in un quadro economico così' diverso, in un sistema sociale tanto cambiato e non certo a favore delle palanche da accumulare nei forzieri della città. Resta il problema dello slancio con il quale in questa città potrebbe essere sospinte, sorrette o perfino inventate con profitto le cosiddette attività culturali, da parte dei privati. Chiamiamoli mecenati o benefattori o come volete. Ovviamente continuando ad aspettare l'assessore alla Cultura, pardon Godot, che magari qualche idea di collegamento tra mecenati privati e investimenti pubblici potrebbe, o dovrebbe, averla.