di Giovanni Pizzo
La Sicilia perde pezzi, brandelli grandi come piccole città ogni anno. Siamo molto al di sotto dei 5 milioni, dal 2015 al 2021 se ne sono andate dall’isola 700.000 persone.
Di queste la metà sono giovani compresi tra i 18 e i 39 anni.
Quello che preoccupa è che in questi giovani che se ne vanno, non c’è più lo stereotipo della valigia di cartone, braccia strappate all’agricoltura, e futuri minatori del carbone. Sono tutti giovani preparati, con un intenso processo formativo affrontato dalle loro famiglie e che si iscrivono in altre anagrafi italiane o estere.
Perché lo fanno? Perché questa terra non ha creato condizioni di sviluppo soprattutto per giovani che investono su conoscenze e competenze. Il lavoro dipendente, di cui molto drogato dal pubblico che non ha più margini di crescita, è appena il 49%. Il resto è formato da lavoratori autonomi, disoccupati, assistiti dal RDC, lavoratori in nero.
Mentre queste condizioni sono già insufficienti per fasce di popolazione a precaria scolarizzazione o a bassa motivazione, per coloro che invece si sono formati nelle scuole superiori, e vogliono continuare a formarsi in cicli di studi a maggior competenza, questo scenario ha una sola exit strategia.
La fuga dall’isola. Fuggono verso città, più che Stati, che offrono maggiori opportunità, sia di valorizzazione del percorso di studio, sia di lavoro conseguente. Poi magari hanno delusioni, vengono sfruttati in un mondo globale che ha ritmi insostenibili, ma che non ignora il capitale umano. Ne è affamato e ne divora a quantità industriali.
In Sicilia nessuno li calcola. Le aziende siciliane non assumono laureati che non siano i parenti del capo azienda, sia per cultura che per nanismo di impresa. Non ci sono grandi aziende in Sicilia, soprattutto nei settori dove una laurea ed una competenza distintiva sia importante.
Essere ignorati nelle loro aspirazioni, nella loro competenza li obbliga, non è una scelta, alla fuga dalla Sicilia. Sfatiamo il luogo comune che possiamo vivere solo di Turismo ed Agricoltura. A parte che non tutti, per competenze e capacità, vogliono fare i camerieri, perché il cuoco da Masterchef solo uno su mille ce la fa. E pochi hanno la tenuta psicologica di rimanere su un fondo agricolo, in una terra, a differenza dell’Emilia, che ha scarsissime reti di servizi per l’agricoltura. E comunque due settori del genere possono fare campare la Sardegna, e non bastano, dove ci sono solo un quarto degli abitanti della Sicilia.
Nel 2021 da Palermo, ma anche da Catania, se ne sono andati oltre 10.000 giovani di questo tipo, ragazzi che volevano crescere, sognare un futuro diverso, seguire una aspirazione, e non farsi assistere dallo Stato o da mamma e papà. Che non volevano ridursi a fare i neet, numeri astronomici in Sicilia, davanti una PlayStation o una cannetta la sera.
È come se da Palermo ogni anno se ne andasse via una piccola cittadina delle dimensioni di Terrasini o Cefalù, tutta giovane, bella e piena di sogni, lasciando giovani demotivati, precari, a raccattare la paghetta da genitori anziani, che tra poco dovranno essere assistiti, puliti e curati, generando in chi resta ulteriori frustrazioni che tutti i care giver, soprattutto quelli obbligati, hanno.
Una volta si parlava di fuga dei cervelli, indicando quanti ricercatori, nella povertà baronale delle nostre università, se ne fuggivano all’estero. Oggi la dimensione del problema è superiore. Se ne va via il miglior capitale che l’isola abbia, il capitale umano. È partito un processo inarrestabile di spopolazione di menti, lasciandoci quelle più deboli e fragili da assistere. La Sicilia, antiteticamente al film dei fratelli Cohen, è un paese per vecchi. E nessun giovane, nonostante l’affetto per i propri genitori, vuole invecchiarci passandoci una vita senza sogni.