DI MATTEO FORCINITI
Sono stati condannati all'ergastolo gli assassini di Luca Attanasio, l'ambasciatore italiano ucciso nella Repubblica Democratica del Congo due anni fa insieme a un carabiniere italiano e all'autista congolese. Nella sua sentenza il tribunale militare di Kinshasa ha condannato le sei persone accusate evitando però la pena di morte chiesta dal pubblico ministero e su tale richiesta era contraria anche l'Italia, parte civile nel processo.
Secondo la versione emersa nel processo a motivare l'attentato sarebbe stato un sequestro finito male con una richiesta di riscatto di 50mila dollari. Questa tesi però viene contestata dalla famiglia: "Noi aspettiamo ancora la verità. Penso che l'Italia debba pretendere la verità perché Luca era il suo ambasciatore" ha affermato Salvatore Attanasio, padre di Luca.
Seppur in contesti diversissimi fra loro, la vicenda Attanasio può essere in qualche modo paragonata a quella di Luca Ventre, l'italiano morto misteriosamente la mattina del primo gennaio del 2021 dopo essere entrato all'interno dell'Ambasciata italiana a Montevideo: in definitiva, due connazionali morti all'estero, due tragedie inimmaginabili su cui però la diplomazia italiana si è comportata in modo molto diverso nella tortuosa ricostruzionedella verità. Massimo impegno in Congo, silenzio assoluto in Uruguay. Perché?
Come hanno riportato diversi giornali è stato "grazie alle pressioni diplomatiche del nuovo ambasciatore italiano in Congo" che si è riusciti ad arrivare a "un'importante svolta giudiziaria" che ha consentito di accelerare lo sviluppo del procedimento culminato adesso con questa sentenza di primo grado che non restituirà ovviamente i morti ma almeno avrà un valore simbolico per la ricerca della giustizia.
Quali pressioni diplomatiche sono state portate avanti invece in Uruguay negli ultimi due anni?
Tanto la Fiscalía di Montevideo come la Procura di Roma hanno messo la parola fine su questa triste storia rimasta impuneaggravata anche dalla mancanza di una verità giudiziaria condivisa tra Italia e Uruguay.
Per la magistratura uruguaiana la morte di Luca Ventre sarebbe stata causata da un mix tra la cocaina che l'uomo aveva assunto nei giorni precedenti all'evento e i farmaci calmanti che i medici gli somministrarono al momento dell'arrivo in ospedale. Di tutt'altro avviso è invece la Procura di Roma che, pur archiviandola posizione del poliziotto uruguaiano autore della manovra violenta, ha indicato nella sua perizia medica l'omicidio come la causa di una morte avvenuta all'interno della sede diplomatica di Montevideo.
Incredibilmente, l'agente Ruben Dos Santos è riuscito a farla franca solo perché non è mai stato presente nel territorio italiano. Affinché sia esercitabile l'azione penale per un reato di omicidio commesso all'estero da uno straniero ai danni di un cittadino italiano, infatti, sono necessarie alcune condizioni tra cui la presenza dell'indagato sul territorio nazionale.
Al di là dei contesti diversi tra l'Africa e il Sud America ciò che colpisce di queste due drammatiche vicende è la differenza abissale nel comportamento della Farnesina che da un lato esercita pressioni e segue attentamente il caso mentre dall'altra mantiene il massimo silenzio anche se -come sostiene la Procura di Roma- il morto lo ha avuto addirittura dentro casa. Non solo,tra Italia e Uruguay esiste anche un trattato di cooperazione giudiziaria entrato in vigore nel giugno dello scorso anno che ha miseramente fallito il suo obiettivo alla prima vera occasione per essere messo in pratica.
Di fronte alla morte di un connazionale l'unica conseguenza in Uruguay è stato un aumento delle spese per la sicurezza e l'arrivo di un carabiniere. Per la famiglia Ventre -che fin dall'inizio ha chiamato in causa l'operato dell'Ambasciata- la richiesta di giustizia oggi resta un miraggio a differenza di quanto successo in Congo. Ma allora la vita di un diplomatico vale più di quella degli altri?