Gente d'Italia

Paolo Emilio Taviani, 26 gli studi, la Fuci, i popolari e quella radio a Granarolo

di FRANCO MANZITTI

Per cercare le radici dell'azione di Paolo Emilio Taviani, il nocciolo del suo potere che si afferma dopo la Liberazione e domina la scena genovese, ligure e italiana per i decenni seguenti fino alla consacrazione “colombiana” e al seggio di senatore a vita, fino all'inizio del Terzo Millennio, bisogna partire da lontano.

Per descrivere il suo sistema di potere, che mai avrebbe chiamato così e mai si sarebbe sentito in quei panni a lungo descritti, perfino esaltati, comunque misurati come il massimo del controllo di un territorio largo in una grande città e in una Regione, è necessario tornare in pieno fascismo. 

Allora il “ragazzo” Paolo Emilio Taviani era un giovane di grandi impegni, “un brillante studente di famiglia cattolica che ha conseguito la maturità classica al liceo Doria di Genova, dove, da avanguardista si distingue per meriti di studio”, come scrive nel suo profilo biografico Alessandro Pavarin in un recentissimo libro-saggio sulla formazione del futuro leader della DC genovese e nazionale, il pluriministro, il segretario nazionale, il collaboratore stretto di Alcide De Gasperi, il capo corrente dei “pontieri”, lo studioso mondiale di Cristoforo Colombo e delle sue scoperte.

Nato nel 1912 da Elide Banchelli, maestra elementare e da Ferdinando Taviani, direttore scolastico e appassionato di drammaturgia e militante del Partito Popolare, Taviani si diploma in Paleografia e Diplomatica presso l'Archivio di Stato e a 22 anni si laurea in Giurisprudenza, diventando nel contempo giornalista pubblicista e collaboratore de “Il Nuovo Cittadino”. Prenderà altre due lauree in Scienze Sociali e in Lettere e Filosofia alla Cattolica di Milano, in un percorso formativo segnato da una vera passione prima per le materie letterarie, poi per l'economia declinata in senso sociale.

Sembra inizialmente assorbito dalla vocazione storico-letterario-geografica, quando l'impegno nella Fuci, la organizzazione degli universitari cattolici (di cui diventerà anche presidente a Genova) e la produzione di articoli e di saggi, non solo su “Il Cittadino”, incomincerà a portarlo verso un interesse quasi di apostolato culturale-giornalistico attraverso il quale il giovane Taviani si farà alla fine conoscere, diventerà uno dei giovani emergenti.

“Come in tanti altri giovani del suo ambiente si può riscontrare in Taviani una multipla appartenenza socio culturale - scrive ancora Pavarin- quella alla Chiesa cattolica, che si articola attraverso il rapporto con l'arcivescovo della propria città, quella ai GUF (Gruppi Universitari fascisti).”

Insomma, il Taviani ventenne subisce i “giovanili entusiasmi” verso il regime, ma segue anche l'altalenante andamento dei rapporti ufficiali tra Vaticano e fascismo, lui che è sempre più impegnato con gli universitari cattolici dei quali l'assistente nazionale sarà niente meno che Giovanni Battista Montini, il futuro cardinale di Milano e papa Paolo VI.

La Fuci genovese nella quale il “suo” cardinale, Dalmazio Minoretti, lo sceglie come presidente, ospita personalità di sacerdoti che segneranno la storia della Chiesa cattolica nel Dopoguerra, come Emilio Guano futuro vescovo di Livorno, Franco Costa, futuro assistente nazionale dell'Azione Cattolica, oltre che Montini, sicuramente figure contrarie al regime fascista e immerse nel dibattito sul ruolo dei cattolici.

Così, se Taviani giovane si illude inizialmente che il fascismo possa evolversi in un riscatto sociale e nazionale, più avanti la politica bellicistica e le leggi razziali sciolgono del tutto quell'illusione.

Se a 18 anni è entrato a far parte dei GUF e a 21 partecipa ai Littoriali della Cultura, gli anni che precedono la guerra modificano la sua convinzione politica. Tutto si muove nell'associazionismo cattolico di cui fa parte sempre più attiva e dove ci sono divisioni pro e contro il regime, facilmente e anche un po' superficialmente identificate come “gemelliane” e “montiniane”. Tutto sembra in qualche modo pacificarsi con gli accordi del 1931 tra Stato e Chiesa e poi di nuovo esasperarsi quando Montini si dimetterà nel 1933 dalla Fuci. 

La discussione tra i cattolici è proprio sulla funzione educativa, rispetto alla quale un regime totalitario era ben distinto nelle sue azioni dal profilo della Fuci.

D'altra parte è Taviani stesso che scriverà, riferendosi a quel periodo complesso della sua formazione tra grande impegno associativo e lavoro all'Università: “Nella mia giovinezza alcuni insegnanti hanno avuto influenza antifascista, come il professor Antonio Boggiano Pico o il professor Emanuele Sella, entrambi docenti all'Università di Genova”. E più volte lo stesso Taviani ha affermato che suo padre Ferdinando era antifascista.

Immerso in una vera passione letteraria, il giovane Taviani incomincia a estendere i suoi interessi su temi economici e sociali dopo il '32, probabilmente ispirato proprio da figure come don Guano e don Costa nella Fuci. Di Don Guano Taviani ha una memoria precisa, indelebile: lo classifica tra i suoi “maestri”, e nel suo libro, “Politica a memoria d'uomo”, scrive: “Devo a Don Guano se sono riuscito a sottrarmi al fascino di Gentile. E devo a lui la linea politica cui rimasi più affezionato, quella che Cossiga definì laicità cristiana: cioè l'autonomia del cattolico nell'azione politica e la diffidenza nei riguardi dell'unanimità partitica dei cattolici”. Una specie di parola d'ordine che rispetterà per tutta la vita. Basta pensare al suo atteggiamento nei confronti del referendum sul divorzio, nel durissimo confronto di quella consultazione elettorale, nel 1974.

Dall'esigenza di “cattolicizzare la letteratura” il giovane professore, assistente di Demografia all'Università di Genova, passa all'impegno di “cattolicizzare l'economia”. Come scrive nel 1934 Amintore Fanfani (che nonostante le divergenze politiche Taviani ammirerà per tutta la vita come professore di economia) bisogna “sistemate cattolicamente l'economia”. Di Fanfani e dei suoi rapporti con lui scriverà nel suo diario: “Una cosa sono stati i miei rapporti politici, non di rado agitati con Fanfani, altra cosa sono i miei rapporti scientifici. Nella storia delle dottrine economiche io ero e rimango fanfaniano, non einaudiano.”

Sta molto probabilmente in questo passaggio complessivo tra fede, letteratura, economia sociale, associazionismo cattolico, nei suoi “distinguo”, il nocciolo della politica di Taviani, il germe della sua vocazione che matura e prepara in modo fecondo una formazione complessiva in una triangolazione di impegno studioso tra Genova, Pisa dove studia alla Scuola Normale e Milano dove frequenterà la Università Cattolica.

Anni che arrivano fino a quando Taviani organizza i gruppi  di studio cristiano-sociali: è lì è chiaramente schierato su una posizione antifascista.

Segue la fondamentale collaborazione alla preparazione del Codice di Camaldoli, vera Bibbia della formazione socio economico per la classe dirigente che getterà le basi della futura Democrazia Cristiana. Camaldoli è un passaggio chiave per molti futuri leader democristiani, lo è anche per Taviani che citerà sempre quell'esperienza.

Oramai la strada del futuro leader è tracciata: nel 1943 fonda la sezione ligure del “Partito cristiano sociale democratico”, mettendo insieme i giovani del movimento cristiano sociale con gli anziani del Partito Popolare. È arrivato a questo passo, come ricorda Bruno Orsini, uno dei testimoni più vivi di quell'epoca, partendo da quell'area autonoma del “laicato cattolico” che si è guadagnata lo spazio proprio nella Fuci, incominciando a distinguere nettamente fascismo e nazismo, dove il fascismo era certamente meno “pagano”.

Non è stato un passaggio indolore quello che porta il giovane fucino a elaborare l'alleanza con gli storici popolari. L'Ovra lo mette nel mirino, mentre Taviani sta insegnando nei licei. Lo vogliono trasferire, lontano da Genova. La Chiesa lo difende e lo protegge.

La situazione è talmente tesa intorno al giovane professore, con tanto intensa attività di studio, di insegnamento, di letteratura, economia che ci vuole un suo viaggio a Roma dal ministro dell'Istruzione Biggini per evitare il trasferimento in qualche modo l'esilio, in una fase complicata come quella che sfocerà negli eventi bellici e nel coinvolgimento dell'Italia fascista.

“Rinforzato” dall'esperienza di Camaldoli, Taviani è pronto quando si devono fare ipotesi sull'Italia post fascista, quando i cattolici impegnati devono far emergere le loro idee, le convinzioni maturate mentre la dittatura si schiantava sotto le bombe e il regime cadeva. Si riuniscono i Popolari come Marchi, Pellizzari, Prussia, Augusto Solari e i Laureati Cattolici e trovano il loro ruolo nella Resistenza. 

Taviani a questo punto è un uomo di poco più di trent'anni e vive l'8 settembre 1943 con una piena coscienza di partecipare alla Resistenza che non “intende” come una guerra civile, ma come il capitolo chiave della prossima Liberazione. Nel CNL della Liguria Taviani c'è ed è probabilmente questa la “investitura” sulla quale costruirà la propria leadership democristiana di fondatore, partigiano, resistente con in testa già chiari gli obiettivi della politica che verrà, quando il sangue finirà di scorrere. 

L'arte politica, la capacità di mediare e di affermare la propria personalità nel nuovo mondo che si costruisce su quelle macerie incomincia a manifestarsi nel tempo durissimo della lotta partigiana.

Sempre nel suo libro-diario Taviani spiega che ci sono tre filoni di scelta che portano nella Resistenza i giovani cattolici, ideologica, coscientemente partitica e, quindi democratica-cristiana.

Oppure c'era una scelta “di servizio” al proprio Paese, il rifiuto a servire l'occupante e infine c'erano anche quelli che scelsero dopo di bandi di Salò, di unirsi, invece, ai ribelli.

È chiaro che egli appartenesse al primo gruppo, quello che scelse l'adesione ideologico-democratico cristiana.

Dirà Baget Bozzo, che nei decenni non sarà certo tenero con il Taviani potente capo democristiano, dominante su Genova e la Liguria e a Roma il più longevo e influente ministro e parlamentare della storia post bellica ligure, che la sua azione nella Resistenza “è stata coraggiosa”, costante e volitiva.”

In effetti Taviani si dimostra coraggioso e nello stesso tempo prudente, come lui stesso si è auto narrato nel suo best seller “Pittaluga racconta”, il libro della sua epopea partigiana, una guerra che non doveva essere tra italiani ma contro l'invasore tedesco da cacciare.

Ancora Bruno Orsini, ricordando l'apporto cattolico alla Resistenza, quello del clero, degli ebrei, degli antifascisti di lunga militanza, cita Taviani e la sua azione coraggiosa. Per esempio Taviani sapeva da buon resistente che nella chiesa di san Filippo, nel cuore di Genova, c'erano le armi nascoste per i partigiani. Lo sapeva, e sapeva gestire le informazioni che servivano a preparare gli attentati e le azioni che avrebbero lanciato la storica “liberazione” di Genova, prima città a cacciare da sola l'invasore tedesco-nazista. Il giovane professore usava quella prudenza da Pittaluga, partigiano convinto, deciso, mai banale, mai demagogico.

 

Il 23 aprile 1945, quando nasce il problema di cosa fare, con la città di Genova quasi in pugno ai partigiani, le brigate in azione in tutti i quartieri, l'esercito tedesco schierato, non ancora in rotta e pronto a vendere cara la ritirata con le bombe, le mine innescate perfino sulle banchine portuali per lasciare dietro alla propria resa una scia di distruzione, mentre il vescovo Giuseppe Siri sosteneva che bisognava lasciar andare via il nemico senza sparare, cosa decide il CNL Liguria? Bisogna combattere, non bisogna lasciarli andare via così: su questa linea il popolare-fucino Taviani è d'accordo. 

L'azione di forza va compiuta e rivendicata.

Taviani vuole controllare la radio che darà dalle alture di Granarolo il fatidico annuncio della Liberazione: è una sua intuizione strategica che conterà molto nella sua carriera.

È allora che un gruppo di ragazzi scelti da lui partono dalla città, tra di essi Baget Bozzo, il futuro sacerdote, siriano di ferro e poi tutto quello che è stato, Gianni Dagnino, futuro deputato, primo presidente della Regione Liguria, Pelloux, salgono su quella collina e si impossessano della radio. 

Non hanno trovato una grande resistenza su quel cocuzzolo sopra il Lagaccio, su quel crinale da cui la vista spazia verso il Righi da un lato, sul porto in faccia e dall'altra parte sulla Valpolcevera.

Una città dalla quale si alzano le colonne di fumo degli incendi, gli echi delle sparatorie, quasi fisicamente la rappresentazione degli scontri quartiere per quartiere.

Le formazioni partigiane che avanzano dopo essere scese dalle colline, i distaccamenti tedeschi che resistono, ma hanno già i musi degli automezzi puntati verso il Nord. Ci sono solo tre fascisti spaventati che difendono la postazione di Radio Genova. I ragazzi cattolici, che su consiglio di Taviani sono saliti fin lassù si impossessano facilmente della Radio.

E così la mattina del 26 aprile da quel microfono si alza la voce di Paolo Emilio Taviani, che lancia il messaggio della Liberazione. “Popolo di Genova esulta, l'insurrezione, la tua insurrezione è vinta, per la prima volta nel corso di questo conflitto un corpo di esercito si è arreso alla forza spontanea di un popolo, il popolo genovese!”.

Non è azzardato concludere che quel gesto “storico” segna non soltanto la Liberazione di Genova, la sua sollevazione orgogliosa, prima che l'avanzata degli alleati raggiunga la città, ma marchia la leadership di quello speaker, il professor Taviani che la scarna iconografia di quell'epoca ci raffigura con un'unica immagine: un giovane magro, quasi emaciato con gli occhi febbrili che sul palco di un comizio improvvisato, con alle spalle quel filo pieno di lampadine che brillano in una delle prime notti di libertà, incita il popolo della Genova “liberata”. 

È lui, è Taviani, membro del CNL Liguria, fondatore della DC ligure, che afferma il suo ruolo. Pallido, magro, lo sguardo determinato, i compagni di guerra al fianco, forse questo è il Taviani che chiude e apre in una sola immagine i due capitoli chiave della propria storia: qui finisce la maturazione dello studente appassionato, del docente di storia e letteratura nei licei, del pubblicista impegnato a scrivere sui giornali e sulle riviste, del cattolico mobilitato nelle associazioni e nei Movimenti, la Fuci in testa, il laureato cattolico, poi il resistente che contribuisce a liberare la sua città. Qui comincia la sua carriera di leader politico, qui affondano le radici del suo sistema di governo della nascente DC. 

Ma come è la DC che sta nascendo con il suo leader pronto per primo a proclamare l'atto di liberazione, ancor prima dei comunisti? Sono ex popolari, ex fucini, laureati cattolici e uomini della Resistenza che si mettono insieme. Ci sono nomi che emergono in questa formazione germogliata insieme, che avranno ruoli importanti ed anche proiettati nel futuro dei decenni seguenti e che apparteranno alla “galassia” tavianea e altri che invece non ne faranno parte. 

Dagnino, appunto il ragazzo che era salito a Granarolo, Novara, il futuro docente della cattedra di Diritto del Lavoro all'Università di Genova, Ferralasco, tutti tavianei e anche Paolo Cappa, il popolare, già storico deputato, che ha già un intenso passato politico di antifascista... Ma bisogna imporre la novità della fusione tra tante anime cattoliche. E questa è l'operazione che porta a compimento Taviani, mettendo la base del suo potere nel partito nascente e in particolare a Genova e in Liguria. 

Il suo primo successo è proprio quello di avere conquistato l'amicizia e la fiducia di Cappa, che è amico personale di De Gasperi, che non ha mai piegato la schiena.

Taviani stesso elenca nel suo diario i “giovani dirigenti di quella DC degasperiana, accanto a me Carlo Russo, Giampaolo Novara, Vittorio Pertusio, Angela Gotelli e il sindacalista Romolo Palenzona”. “Erano - scrive il futuro leader- tutti molto avanzati socialmente. Io provenivo dai cristiano sociali. Tutti ci eravamo abbeverati alle dottrine di Maritain e Mounier. Non fu indifferente che Genova e La Spezia fossero città industriali “irizzate”, dove già il fascismo aveva instaurato un sistema di economia mista.”

Così Taviani con tanta benedizione va alla Consulta nazionale, quella sorta di pre-Parlamento e ci va su posizioni di sinistra, ma anche di garanzia delle diverse anime che compongono la nuova formazione politica, nella quale si bilanciano, appunto i fucini, i laureati cattolici, i vecchi popolari, i resistenti, anche i sindacalisti come quel Romolo Palenzona.

Quanto sia già centrale il ruolo di Taviani lo si capisce da questo foglio del suo diario, datato 25 settembre 1945, due mesi esatti dopo l'annuncio da Granarolo: “Stamattina prima della seduta inaugurale della Consulta, con i consultori della DC ci siamo riuniti in una sala del terzo piano della Camera dei Deputati. L'On. Giulio Rodinò (deputato napoletano dal 1921 del partito popolare) è stato eletto presidente del Gruppo Democratico Cristiano, Attilio Piccioni segretario e io vicesegretario. Mi ha proposto Brusasca e mi hanno votato tutti.”

Questo è forse il primo scalino del percorso che Taviani compirà a Roma e che lo farà affermare nel partito e nei governi che poi vedranno la partecipazione della DC. Incomincia anche un ruolo nazionale, che legittimerà quella locale, genovese e ligure, in una ripartizione di compiti e di gestione locale e nazionale, organizzata per decenni da Taviani con un pragmatismo di ferro. 

LA MACCHINA DEL POTERE, I RUGGENTI ANNI DI PET

A Roma Paolo Emilio Taviani passa da un ministero all'altro nel ritmo dei frequenti cambiamenti di governo che segnano il lungo percorso della Prima Repubblica. Con l'esclusione degli Esteri e dei ministeri più piccoli, si siede in quasi tutti ruoli di Governo, che fossero monocolori democristiani, pentapartiti, alleanze di centro destra, nascente centro sinistra, governi balneari o governi di transizione verso altri governi. 

Non gli riesce soltanto di ricevere l'incarico di Primo Ministro e quello, forse ancora più ambito, di Ministro degli Esteri, il vero obiettivo, spesso confidato agli amici più stretti e mai raggiunto, malgrado una competenza passata anche attraverso il sottosegretariato di quel dicastero nel 1951 durante il governo De Gasperi, in età giovanile, e malgrado l'importanza di incarichi alla Difesa, all'Interno e il ruolo in tante Commissioni Parlamentari, sia della Camera sia del Senato. 

Appassionato di politica estera, abituato a inquadrare sempre tutte le vicende politiche, anche quelle più interne, in una dimensione internazionale Taviani ha sempre spiegato non solo le vicende della politica, ma anche quelle umane, dei rapporti tra i popoli, con letture che tenevano conto degli equilibri mondiali, delle relazioni tra Nazioni, razze, continenti. Usava in questo un gusto particolare, una sensibilità che probabilmente veniva dalla sua passione iniziale, quella per la geografia.

Dal 1948 al 1975, nel mese di dicembre della caduta del governo Rumor, Taviani è il ministro per eccellenza, quasi per definizione, con due frequentazioni più assidue, quella del Ministero degli Interni, il Viminale, dove siede dal 1962 al fatidico1968 (di cui sfiorerà appena le turbolenze) e poi dal 1973 al 1975 e della Difesa.

Sono gli anni dell'apogeo tavianeo, della maturità politica, della DC che è al centro di tutto il sistema della Repubblica, gli anni nei quali si forma anche il ruolo internazionale dell'Italia, la sua partecipazione al patto atlantico (alla cui adesione il leader genovese partecipa da protagonista) e quello europeo dell'Italia che passa dalla ricostruzione, al boom economico, alla congiuntura, alla crisi, all'Oscar della lira e alle prime grandi contese sociali.

Taviani ha trasferito la sua famiglia a Roma, la sua numerosa famiglia, la moglie adorata Vittoria Festa e i sette figli Ferdinando, Cesare, Ida, Elide, Beppe, Andrea, Paolo degli otto che un matrimonio felice e così fecondo gli ha dato, insieme al dolore della morte prematura di Pietro, stroncato in tenerissima età da una forma di leucemia.

Bavari resta la sua base genovese, la casa sulla collina verde dove tornerà ogni fine settimana e ogni volta che la sua presenza sarà necessaria. Una piccola casa, sobria, modesta che, però, diventa l'epicentro del potere tavianeo su Genova e sulla Liguria. 

Taviani verrà chiamato nel sistema mediatico di allora, che era certamente più contenuto di quello odierno, “il principe di Bavari” e quel luogo il crocevia chiave per capire dove andavano non solo la politica democristiana e tavianea, ma spesso quella del governo.

A Bavari, un piccolo giardino, una garitta per la scorta del ministro, una casetta in stile contadino, lo studiolo dove si veniva ricevuti con una stufetta e libri, tanti libri: qui si sono decisi certamente i passaggi chiave dello sviluppo genovese, si sono sfornate candidature, scelte degli uomini e delle donne che avrebbero ricoperto i ruoli rappresentativi e non solo, in un sistema di potere che piano piano ha conquistato la vera leadership sul territorio, quella che non ha avuto paragoni nella sua penetrazione, nella sua influenza, se non forse il dominio del PCI-PDS-DS-PD, ma senza che mai tutto fosse riferito a un solo uomo, appunto Paolo Emilio Taviani, il PET, come si pronunciava in una sintesi fatta di confidenza spesso usurpata e anche di timore o di riverenza anche subita.

Questo potere l'ex professore e l'aspirante letterato, che era stato folgorato da giovane e poi per tutta la vita dalla passione per gli studi Colombiani, se l'era costruito incominciando a dominare nel suo partito, nella giovane DC degli anni Cinquanta, dopo la guerra, nel dopoguerra insanguinato dai regolamenti di conti, dalle morti sospette, dalle esecuzioni, dopo il referendum sulla Monarchia e sulla Repubblica, dopo il fatidico 1948, da lui combattuto nella sua Liguria, nelle strade di Genova insieme agli altri dirigenti della DC.

Non era un campo libero quella DC ligure che aveva avuto un ruolo chiave nella Liberazione. Emergeva su tutti il professor Roberto Lucifredi, gran leader cattolico, insigne professore di diritto costituzionale e amministrativo, maestro di legge e di politica, il “contendente” iniziale di Taviani nella DC, ma che rispetto al “principe” di Bavari non affrontò mai quella divaricazione tra Genova e Roma.

Mentre Taviani stava principalmente a Roma, ma occupava bene il suo territorio con uno staff molto ben strutturato, Lucifredi non fa politica a Roma e si concentra sulla Liguria.

Taviani capisce subito che bisogna contare a Roma, senza lasciare nulla a Genova. Il trasferimento della famiglia a Roma, un fatto non del tutto scontato per un parlamentare ancora giovane, è un segno di questa scelta. 

La famiglia lascia l'appartamento di corso Dogali e si rompe un po' la ritualità degli incontri di Santa Sabina ogni lunedì, che serviva al neo parlamentare che diventerà poi sottosegretario e addirittura per nove mesi, nel 1950, segretario nazionale della DC, all'ombra di De Gasperi e, quindi, ministro per quasi tutti i governi a seguire. Ma Taviani non molla Genova e, appunto, Bavari diventa il suo centro focale, il cuore del suo sistema di controllo territoriale.

Roma è un'altra storia con il ministero di competenza in quel momento, con la prestigiosa rivista Civitas e la sua sede in via Po e in via Tolmino. E con quella casa di via Asmara 34.

Quasi ogni domenica sera c'è il vagone letto che lo aspetta alla stazione Principe per Roma. E quanti incontri delicati, in attesa che il vagone fosse attaccato al convoglio, dopo rapide convocazioni di collaboratori e amici a Principe. 

Ma questo della divisione dei compiti tra Genova e la Liguria, da una parte, e Roma dall'altra è un punto di arrivo, il momento nel quale la geometrica potenza dell'apparato tavianeo si consolida permanentemente.

C'è una fase precedente nella quale la leadership genovese e ligure viene guadagnata palmo a palmo, sul territorio, ma anche nella conquista delle pedine importanti sullo scacchiere, in una catena di comando che controllerà tutti i gangli dell'articolazione genovese e ligure.

Si può dire che Taviani cresce come leader della DC e come “faro” di questo partito insieme a Genova, che cresce dopo le ferite della guerra e i grandi scontri politici e sociali della fase successiva, dai “regolamenti di conti” dopo la Resistenza, dopo lo scontro frontale Monarchia- Repubblica e quello cruciale del 1948 contro il Fronte Popolare dell'alleanza PCI-PSI.

Genova è una città che esce rapidamente dalla guerra, quasi con un impeto di ricostruzione, che parte dalla salvezza del porto minato dai tedeschi in fuga e continua con la rapida ripresa edilizia, dove decine di migliaia di abitanti vivevano alla meglio, addirittura tra le macerie prodotte dai bombardamenti. 

Si chiamavano “abituri” e la necessità di dare loro una casa, è la spinta di una urbanizzazione potente e senza tanti limiti e regole, quella che cementificherà le colline e produrrà in prospettiva il disequilibrio ambientale che presenterà il conto anni e anni dopo, a partire dalla alluvione del 1970. Ma ci sono anche i nodi di una ripresa industriale da rimpostare, dopo il ridimensionamento immediatamente postbellico di aziende come l'Ansaldo e ci sarà il ruolo dell'IRI da definire, con le sue fabbriche destinate a produrre il futuro miracolo italiano, mosse dalle braccia delle potenti immigrazioni interne degli anni Cinquanta e Sessanta. 

Ci saranno le infrastrutture da costruire, a partire dalle autostrade, ma anche gli acquedotti come il Brugneto, i grandi servizi di una città che ha finito la guerra in ginocchio, sventrata dai bombardamenti, divisa al suo interno da contrapposizioni ideologiche forti, che si sono rinfocolate subito nel clima della Guerra Fredda.

Taviani cresce nella sua statura di leader locale e di “uomo di Stato” in questo percorso di ricostruzione della città del quale è l'anello più importante che lega la ripresa al territorio, passando attraverso una dialettica politica forte, molto contesa. 

È lui che grazie ai crescenti incarichi romani, a partire da quelli nella Costituente (dove si occupa di scrivere gli articoli sul diritto di proprietà), continuando con quelli nel partito e poi nel Governo, con responsabilità sempre più impegnative, diventa il tramite con Roma.

La democrazia che rinasce e che diventa subito pulsante nella Grande Architettura della Costituzione detta le regole. Bisogna costruire il partito della Democrazia Cristiana e ci sono le grandi sfide con gli altri partiti, a Genova inizialmente con il Fronte popolare, che poi diventerà PCI e PSI.

Anche a Genova c'è da gestire la grande eredità del Partito Popolare e dei cattolici liberali che in qualche modo guardano alla DC: una lunga storia che era cominciata col non expedit dei 1884 (il divieto ai cattolici di impegnarsi in politica) poi cancellato da Pio XI e con il Patto Gentiloni che apriva l'impegno cattolico verso i liberali, che culminava nel nuovo partito cattolico. 

E qui la lunga maturazione tavianea negli anni giovanili, tra Fuci, grandi sacerdoti della sua formazione, dà i suoi frutti operativi e consolida una vocazione da leader che ha l'impegno di contribuire alla costruzione di un grande partito, ispirato alle idee di Sturzo e ora portato alla verifica da De Gasperi, che ha la responsabilità di guidare il Paese.

Il Partito Popolare aveva raccolto, nel lontano 1921, il 20 per cento dei voti, quando nel Parlamento che diventerà il bivacco dei fascisti i deputati socialisti erano 120 e quelli popolari altrettanti. 

C'è, quindi, per il giovane Taviani un'eredità storica pesante e impegnativa, fatta anche di nomi come Paolo Cappa, Pellizzari, che vengono da quella storia, che hanno subito, dopo l'Aventino, lo scioglimento del Parlamento da parte di Mussolini.

Taviani fa le sue grandi scelte degasperiane e nella Guerra Fredda che subito si scatena, si proclama garante del “mondo libero”, fa la scelta atlantica e poi europeista. Lavora a costruire la DC in quel crogiuolo cattolico da lui così ben frequentato negli anni giovanili e che esce dalla guerra e dalla Resistenza con fermenti forti e vivi, appunto gli storici Popolari, i Laureati Cattolici, i fucini, di cui aveva fatto parte, i partigiani “bianchi”, che poi prendono forma nella FIVL, la Federazione dei Volontari della Libertà, cui il leader resterà legato tutta la sua vita, fino all'ultimo respiro.

Nel 1953 a Genova proprio il professor Roberto Lucifredi prende più voti di Taviani. Sono le elezioni post 1948, che De Gasperi perde e che segnano svolte importanti nella DC. 

Anche a Genova, dove il “principe di Bavari” ha misurato la forza del suo avversario, Lucifredi, che ha al suo fianco giovani politicamente “forti” come Antonio Bodrito, futuro deputato, destinato poi ad una morte prematura.

In ballo oramai c'è già, sia a Genova che a Roma, la seconda generazione democristiana. È in quella che si deve affermare la leadership tavianea, in un quadro complesso dove, però, devono esserci punti cardine: sia a sinistra che a destra nel partito non ci possono essere in politica estera posizioni diverse da quelle europeiste e atlantiche, si vince, come nel 1948 solo se non si danno opzioni a sinistra.

Sono tutti questi passaggi, la nascita a Roma di “Iniziativa Democratica”, che mette insieme i leader nuovi, appunto come Taviani, Rumor, Fanfani, Moro, che spiegano come Taviani sia nel cuore della politica romana, che consacrano il PET a Roma e gli inculcano la convinzione che Genova possa essere governata eccome, ma stando a Roma e affidando il territorio a uomini fidati, a amici fedeli.

Di “Iniziativa Democratica” Taviani scrive, sempre nel suo diario, affrontando quel passaggio chiave: “C'erano con me Rumor, Salizzoni, Carlo Russo, Emilio Colombo, Maria Jervolino, Benigno Zaccagnini, fra coloro che militavano nel centro degasperiano. Fra i dossettiani, rimasti senza Dossetti, Gui, Ardigò, Moro, Galloni, Pecci... Eravamo la nuova generazione democristiana e controllavamo già gran parte del partito: le leve periferiche, le sezioni, i congressi, le segreterie provinciali di buona parte d'Italia...”.

C'era in questa riunione un dato generazionale importante ma non solo: praticamente questo era il fondamento di una corrente, la prima corrente nella DC, nata appunta nel 1951, che implicava già il controllo di una parte del partito. Mancavano, come lo stesso Taviani scriveva, l'ideologia, i contenuti con cui affermarsi. Sarebbero venuti, l'una e gli altri, e avrebbero avuto un significato importante anche sul territorio.

IL SISTEMA TAVIANI UOMINI E APPARATO

Si può dire brutalmente che, in questa situazione di “controllo delle leve periferiche”, Taviani delega il potere locale, scegliendo di concentrarsi nella politica a Roma? Forse il giudizio è drastico, ma è indubbio che tutti i momenti chiave della politica genovese e ligure si sviluppano con una regia “dall'alto”, fosse da Bavari, fosse dagli uffici ministeriali, fosse dalla casa di via Asmara 34, la sobria abitazione romana del ministro, austera come Bavari, nel quartiere africano di Roma, lungo la via Nomentana, altro luogo cult del potere tavianeo, capolinea per tanti genovesi e liguri in pellegrinaggio romano dal “capo”.

Ma a chi vanno queste deleghe “locali”? Come si costruisce effettivamente il potere tavianeo sul territorio? La struttura si delineerà nel corso degli anni e diventerà orizzontale e verticale, nel senso che “scenderà” direttamente dal capo, attraverso i suoi fedelissimi, ma necessariamente si allargherà su tutto l'orizzonte dello scenario politico, economico sociale, attraverso non solo il partito, ma le associazioni di categoria, i commercianti per esempio, gli artigiani, i cosiddetti “corpi intermedi”. Taviani avrà i suoi uomini in ogni ente, istituzione, e associazione, magari senza neppure saperlo, a mano a mano che la sua figura si afferma a livello nazionale, passando da un ministero all'altro e a livello locale a mano a mano che la “sua” DC sarà influente in Provincia, in Regione, quando nel 1970 nascerà, eleggendo come suo primo presidente proprio un tavianeo di ferro, l'avvocato Gianni Dagnino, forse da un punto di vista della funzione e della vocazione e dell'aderenza al modello il più vicino di tutti al “capo”.

Nei Comuni, nelle Municipalità, a partire da quella chiave di Genova, che esce dalla Resistenza e dalla Lotta di Liberazione, con sindaci come Faralli, Tarello si afferma presto Vittorio Pertusio, un brillante avvocato “forgiato” dalla Resistenza, di grande personalità e carisma e si continuerà con Augusto Pedullà (da cui poi Taviani sarà attaccato duramente) fino al “figlio prediletto”, Giancarlo Piombino. 

Una mappa completa di questo controllo locale è impossibile, perché si distende per anni e anni, decenni sul territorio genovese e ligure, non limitandosi certo alla città di Genova, ma ne va sottolineata l'ampiezza di influenza che avrà all'interno della DC e delle sue correnti, sempre più numerose e battagliere, una fiera, spesso fierissima opposizione, ma senza che mai nel corso dei decenni il monopolio tavianeo sia minacciato veramente. 

Anche quando, negli anni Ottanta, uscito oramai in modo definitivo dal governo nazionale, Taviani, già passato al Senato nel solido collegio di Chiavari, vive quella che allora chiamavamo “notabilizzazione” (termine nel suo caso errato fino alla fine dei suoi giorni), è lui stesso a decidere la successione come capolista alla Camera dei Deputati.

È lui, attraverso il “numero uno” di allora nel proprio apparato, l'avvocato Gianni Bonelli, a chiedere niente meno che a Ciriaco De Mita, allora segretario nazionale della DC e presidente del Consiglio, di candidarsi come numero uno alla Camera dei Deputati in Liguria. Non un genovese, un ligure, nessuno dei possibili “delfini” o dei brillanti deputati e senatori che la DC ha imposto, non Bruno Orsini, il grande psichiatra andato e ritornato in politica, non Manfredo Manfredi, già presidente della Provincia e “re” delle preferenze, non certo Francesco Cattanei, l'enfant prodige degli anni Sessanta, nipote di Giorgio Bo, il ministro genovese di Sestri Levante, con cui Taviani ha costruito la Genova moderna, utilizzando il suo lungo regno nel Ministero delle Partecipazioni Statali.

Taviani lascia in eredità quel patrimonio di preferenze, che erano decine di migliaia, fino quasi a novantamila, un vero lascito tavianeo, a Ciriaco De Mita, avellinese di Nusco, leader nazionale. E De Mita per due volte sarà candidato stravincente a Genova, mentre Taviani lo benedirà dal suo scranno senatoriale chiavarese. 

Una scelta per segnare una eredità non assegnata? Una strategia per mantenere a Genova una relazione di potere forte con il centro romano? De Mita nel suo doppio mandato ligure genovese frequenterà con una certa assiduità Genova, malgrado i suoi incarichi romani. Si affascinerà seguendo il suo modello di sviluppo, inciderà molto come vedremo nel sistema di comando della DC, schierando suoi uomini nel partito, come il professor Filippo Peschiera, nominato “coordinatore”, quel “ragazzo” che salì a Granarolo per conquistare la Radio dalla quale annunciare la Liberazione per bocca di Taviani, tenendo un po' in disparte i fedelissimi di Taviani, in particolare il segretario regionale, Gianni Bonelli. 

Taviani stesso assisterà senza polemiche, ma con un distacco misurato dal suo collegio senatoriale di Chiavari. 

Un sistema così perfetto e pure elastico, che ha il suo cuore pulsante a Genova-Bavari e che si muove costantemente collegato alla linea rossa con Roma-Via Asmara e con il ministero nel quale Taviani in quel momento siede e con Piazza del Gesù, dove si fabbrica la politica DC, deve avere per forza una prima struttura di gestione, i veri scudieri del ministro. 

Sono pochi uomini fidati, altro che cerchio magico, che hanno affiancato Taviani nella sua parabola, almeno in gran parte del suo percorso dai primi anni Cinquanta fino a quando la stella brilla alta nel cielo della politica.

L'uomo chiave è Walter Paccagnini, un toscano burbero, ma di gran cuore, che è il segretario particolare, la bussola del ministro, nato a Montalcino, diventato in qualche modo ligure per forza, con la sua potente inflessione toscana, la vera ombra di Taviani, senza di lui nessuna pratica procede, nessun passo viene compiuto, nessun consiglio si concretizza, nessuno viene vagliato, selezionato per qualsiasi ruolo possa interessare, interno o esterno. Paccagnini fa solo qualche passo di lato, non indietro, di fronte alle più squisite questioni politiche. Ma ne è informato e magari interviene un po' più sommessamente. 

Certo, Paccagnini nella storia tavianea ha un ruolo delicato, continuo e importante, probabilmente decisivo. Sa tutto, vigila su tutto, svolge prevalentemente un ruolo romano, la sua stanza è sempre accanto a quella del ministro, fossimo al Viminale, quando la carica è quella di Ministro degli Interni o in via XX Settembre, quando il ruolo ministeriale è al Ministero delle Finanze o a quello del Bilancio e della Programmazione. O si tratti di un altro dei dicasteri che Taviani ha guidato a lungo come la Difesa o la Cassa per il Mezzogiorno.

Poi c'è il professore Secondo Olimpio, quello che oggi chiameremmo l'uomo immagine e che allora era il capo ufficio stampa con l'incarico di tenere i rapporti con i giornalisti e i mezzi di comunicazione in un mondo tanto diverso da quello di oggi. Savonese di Bardineto, un po' rustico nei toni, ma abilissimo nel consigliare il ministro e nel costruire quella sua figura “forte”, decisa e rassicurante, Olimpio si inventa, per esempio, negli anni in cui il ministero è quello degli Interni, la figura di Taviani che anche nel giorno di Ferragosto, quando Roma è vuota anche nelle stanze del potere e gli italiani vivono la grande vacanza, allora unica in tutto l'anno, come il buon padre di famiglia che vigila sulla sicurezza di tutti e non solo. 

È il garante che l'ordine regni sovrano, che il sistema politico non soffra di alcun vuoto. E la telecamera dell'unico Tg di allora indugia su Taviani che passeggia con i suoi collaboratori nelle strade di una Roma deserta e poi controlla con la batteria del Ministero l'intero paese.

Olimpio è un personaggio più romano che genovese o ligure, tratta con i direttori dei giornali, con le grandi firme (che allora erano numerose e molto qualificate, come tante erano le testate giornalistiche di carta) “pilota” la figura di quello che chiama “il principale”, ma non l'abbandona certo a Genova e in Liguria, soprattutto, quando le effervescenze politiche sono più forti, quando, per esempio, Il Secolo XIX, rilanciato da Piero Ottone, aggressivo con il potere costituito, gratta la coda ai tavianei genovesi.

Olimpio è pur sempre savonese di Bardineto e a quelle radici ci tiene.

Il “cerchio magico” (Taviani non avrebbe mai accettato una definizione simile) si completa dopo il 1968 con la figura di Gianni Bonelli, un giovane avvocato dello studio di Gianni Borgna, altro fedelissimo, compagno di scuola e di banco di Taviani, che diventerà anche presidente della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, la futura Carige. Bonelli è allora un trentenne avvocato che diventa il braccio destro nella politica genovese e locale, figura chiave almeno fino agli anni Novanta, segretario provinciale e regionale della DC, capo corrente onnipotente e universale e in quella delega locale che Taviani ha concesso per governare da Roma, senza perdere battute nel gioco romano, tra grandi questioni ministeriali e di governo e la mobilissima vita della DC con le sue correnti, le sue frizioni, i suoi Congressi, le congiure, i tradimenti e le paci, i doroteismi e le lotte segrete, diventa il factotum nei grandi rapporti con gli altri partiti. 

Bonelli è l'uomo che sceglie, indirizza, decide la politica genovese e ligure sotto l'occhio permanentemente vigile del capo, che lo sveglia in piena notte attraverso la Batteria, mitico centralino del Ministero.

Probabilmente per molti anni è la figura più potente e decisiva nella gestione del potere locale che Taviani ha in mano. È lui che gestisce i rapporti con gli alleati, con i capi socialisti che per molti anni governano con la DC e poi strappano da essa, dopo il “mitico” Barbareschi, i Macchiavelli, i Meoli, i Fossa, i Canepa, i Magnani, i Sanguineti prima che arrivino i craxiani.

È lui che tratta con il PCI da avversario frontale, oppure da dialogante, quando si respira l'aria del “compromesso storico”. In una serie di celebri reportage su “Il Corriere della Sera” dell'inizio anni Settanta sul potere nelle grandi città italiane, Giampaolo Pansa, occupandosi di Genova, traccia un ritratto vivissimo di questo avvocato che “rappresenta” Taviani, allora ministro dell'Interno, alle prese in Italia con “gli opposti estremismi” del terrorismo, l'emergenza dell'ultimo tratto della sua vita di governo, quella che gli costerà molto cara e a Genova, alle prese con una grande città che incomincia a affrontare i morsi di una  crisi industriale nelle aziende Iri e che ha una maggioranza comunista veleggiante verso il boom berlingueriano del 1976.

Ma il terzetto Paccagnini-Olimpio-Bonelli è solo il vertice di una struttura molto più ampia, un modello di organizzazione che Taviani utilizza per governare il partito tra Roma e Genova tenendosi stretta una gestione che deve fare i conti nel corso degli anni con tante evoluzioni della politica nazionale e di quella locale e con tanti personaggi, a incominciare dagli altri leader della DC. È un vertice che tocca il suo apogeo tra gli anni Settanta e Ottanta, ma che era stato costruito prima e che gestisce probabilmente la fase di maggior potere a Roma e a Genova.

Passano gli anni dai tempi eroici della Liberazione, poi da quelli di “Iniziativa Democratica”, della Domus Mariae, che butta fuori Fanfani e a Genova Taviani cresce sempre di più, ma anche i “concorrenti” dentro allo Scudo crociato e negli altri partiti avanzano e sfidano PET e il controllo del territorio, nato eroicamente e poi sviluppato in contesti tanto cambiati.

IL “MITICO” 1960 E LO “SCHIAFFO” DEL PRIMO CENTRO SINISTRA

Già il 1960, il fatidico 30 giugno è come un fulmine che coglie Paolo Emilio Taviani, ministro del governo di Ferdinando Tambroni, un po' impreparato, come lui stesso confessa nel suo diario. Allora non c'è ancora Bonelli, ma ci sono intorno al capo le figure storiche che avevano assistito Taviani nella prima fase. Nel 1956 alle elezioni comunali PCI-PSI avevano preso il 38 per cento dei voti come la Dc e in consiglio comunale c'erano quattro missini. La DC alla sua destra aveva solo questi missini e il boom del PLI sarebbe arrivato solo qualche anno dopo.

È su questo terreno che si prepara la grande svolta del 1961, quando Taviani inventa il primo centro sinistra nel Comune di Genova, facendo l'alleanza con il PSI. 

Si tratta di un passaggio-chiave nella storia di Genova, che avrà due avversari non sintonizzati tra loro, ma fieramente contrapposti al fatto che Genova fosse la prima grande città a “battezzare” un governo di centro-sinistra. 

Il più importante dei due, ugualmente figure fondamentali nel percorso genovese, è il cardinale Giuseppe Siri, allora anche presidente della CEI, il successore in pectore di Pio XII, che lo voleva addirittura nominare suo successore sulla cattedra di san Pietro, senza passare per il Conclave. Quindi un monumento della Chiesa, il cardinale più potente, ancora giovane, molto inserito nella città laica dove aveva inventato la figura dei “cappellani del lavoro” e fondato l'”Auxilium”, la prima organizzazione di assistenza e solidarietà, primogenita di una tradizione che si continua a rinnovare. Il secondo sarà l'allora presidente di Confindustria, grande armatore e imprenditore genovese, Angelo Costa, altro colosso non solo genovese, ma dell'economia nazionale, il presidente della Ricostruzione italiana, a capo degli industriali italiani e a Genova di una struttura di capitalismo famigliare che terrà botta fino al 1990, tredici anni dopo la sua scomparsa. 

Siri non solo era contrario, ma fece quanto era possibile, anche formalmente, per scongiurare l'alleanza politica. Vittorio Pertusio, il sindaco che avrebbe fatto il grande passo, sostituendo l'amministrazione di centro destra con una di segno opposto, sotto la sua stessa guida, racconta bene quanto Siri si fosse schierato contro.

In un suo delizioso libro di ricordi intitolato “Frammenti di vita” Pertusio spiega come il cardinale gli avesse inviato in visita il suo segretario personale, monsignor Pesce e come questi gli avesse comunicato di non recarsi in visita nel rituale incontro di inizio mandato: non era gradito dal vescovo. Non solo: il monsignore avvertì il sindaco che gli venivano comminati i “sacri moniti”, cioè la formale censura dell'arcivescovo, in base ai quali non gli era consentito partecipare alle processioni di san Giovanni Battista e a quella del Corpus Domini. 

Era una decisione gravissima alla quale Pertusio reagì con la sua classe, chiedendo che almeno una rappresentanza municipale con il Gonfalone potesse apparire durante le sacre celebrazioni sulla soglia di un palazzo municipale, in  modo che l'ostracismo della Chiesa non apparisse così totalizzante. 

Accadde poi - come ricorda sempre Pertusio nel suo libro - che l'anatema dei sacri moniti fosse subito cancellato e che un altro monsignore della Curia si recasse dal sindaco per comunicargli che si poteva partecipare alla processione.

Questo episodio dimostra in quale razza di tempesta si trovò ad affrontare la DC tavianea per la sua scelta di far passare il centro- sinistra proprio da Genova.

Firmato a Roma da Taviani e dal senatore socialista Barbareschi, il patto genovese tra DC e PSI con PRI e PSDI alleati fedeli, durerà fino al 1974 e sarà molto ben gestito all'inizio proprio da quello che è già diventato un sindaco mitico, appunto, l'avvocato Vittorio Pertusio, non certo definibile come un “tavianeo”, ma che Taviani appoggia incondizionatamente.

Pertusio, alto, elegante, popolarissimo, con la sua immancabile lobbia scura e la presenza forte, l'oratoria rotonda e accattivante, il rigore etico morale non è mai un contendente di Taviani, né un suo concorrente, ma tanto meno un leader omologato. Pertusio è e resterà anche a decenni di distanza Pertusio. Ha fatto la Resistenza, ha governato la città più di ogni altro fino ad oggi, tredici anni, è un democristiano vero, coraggioso ma manterrà poi la sua autonomia.

Tra il 1956 e il 1958 la sua giunta aveva tremato perché potevano aggiungersi i voti, non richiesti e non graditi, del MSI. Dietro Pertusio ma con un distacco elegante c'è sempre Taviani e i due lavorano intensamente per la città, la “strutturano” per il suo sviluppo, mantenendo una “compartimentazione” tra i loro ruoli, che non si ripeterà più. I frutti di questo accordo di grande reciproco rispetto sono opere fondamentali nel tessuto genovese. 

Basta ricordare l'acquedotto del Brugneto che leva la sete ai genovesi, le autostrade che tolgono la Liguria dall'isolamento, la Fiera del Mare, ascritta anche ad altri personaggi dell'establishment genovese di allora e non propriamente democristiani e tavianei, come il professor Giuseppe De Andrè, padre di Fabrizio o come il giovane democristiano Carlo Pastorino, futuro senatore fanfaniano.

VERSO IL 1968 DENTRO UNA CITTA' “DIVISA” COL RUOLO DI PONTIERE. A ROMA

Paolo Emilio Taviani era degasperiano, filoamericano, atlantista, però, viveva in una città operaia con un grande porto, in un contesto politico dove il PCI era forte e molto concentrato nel territorio. Veniva dalla Resistenza e guardava con attenzione agli altri resistenti. Il 25 aprile era una data fondamentale da consacrare, fondendo quel passato di lotte e liberazione con un presente di rispetto e relazioni chiare. Inoltre aveva organizzato quel sistema di potere che abbiamo descritto e che deterioramente sarà poi definito “clientelismo” di rapporti nella città per cui la sua figura era il punto di riferimento chiave, si potrebbe dire che è “il ponte” non solo tra la città e Roma, ma anche dentro alla città tra le sue diverse anime.

Non è un caso che proprio prima del 1968 Taviani fondi a Roma la corrente dei pontieri. Perché compie questa mossa che avrà la sua ricaduta in città e che per un largo tratto fino alla metà degli anni Settanta gli conferisce un ruolo nazionale, appunto di capo corrente, non solo di uomo di governo? Lo spiega Taviani stesso nel suo diario: “Un congresso che rischiava di essere una sanzione precostituita a tavolino dai detentori del potere. Rumor segretario del Partito, Moro presidente del Consiglio, Fanfani presidente del Senato, Forlani, Piccoli, Silvio Gava, Zaccagnini, Emilio Colombo, Andreotti, si sono accordati per una lista comune di maggioranza, lasciando in minoranza l'intera sinistra politica (Galloni, Granelli, De Mita e Marcora) e quella sindacale (Donat Cattin, Pastore). Ho perciò costituito una terza lista autonoma, detta anche ponte (di qui il termine pontiere). Sono con me in primo luogo ancora l'infaticabile Gaspari e poi Cossiga, Sarti, Micheli, Bova, i due campioni della lotta contro la mafia, D'Angelo e Alessi, quasi tutta la dirigenza ligure: Dagnino, Borgna, Bonelli, Pastorino, Cattanei, Epifani a Genova, Scajola e Manfredi a Imperia, Olimpio e Rembado a Savona.”

La motivazione della corrente che Taviani offre ai posteri è: si era resa necessaria una modernizzazione del partito che doveva aprirsi di più alle donne e ai problemi dell'ambiente. Sembrano motivazioni settoriali e clamorosamente moderne. Di fatto Taviani circoscrive il suo ruolo in un momento chiave della sua carriera romana e in conseguenza genovese. 

I “pontieri” sono una corrente nazionale con adesioni genovesi e liguri, ma a Genova e in Liguria nella mappa delle correnti locali questo nome non passa quasi: ci sono solo tavianei.

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