di MIMMO CARRATELLI
L’ultima immagine di Diego, prima di morire, è quella sua uscita di casa, la misera casa di San Andres a Tigre, non lontano da Buenos Aires, la casa dell’ultima sua solitudine. Uscì appoggiandosi a due uomini. Un bambino, poco distante, lo salutò: “ Hola, Diego”. Lui si voltò a fatica e accennò a un saluto stanco. Non l’avremmo rivisto più. Fanno tre anni che Diego è solo un ricordo struggente. Mai più una data come le altre” hanno scritto gli ultrà azzurri. Erano le cinque della sera a Napoli, le 13 in Argentina, il 25 novembre 2020, un quieto mercoledì autunnale nel golfo e un tuono arrivò dal cielo su tutti noi incantati dall’eterno fanciullo del pallone. Diego è morto. L’Equipe titolò: “ Dieu est mort ”. Il cuore generoso aveva ceduto. Quanto tempo aveva lottato Diego contro il muro nero della morte negli anni strazianti della droga che gli divorava il fisico e gli annebbiava la testa? Quanto era stato forte a riprendersi, lottando come un leone, contro il vizio della perdizione? Quei due giorni drammatici a Punta del Est nel gennaio 2000 e a Buenos Aires nel 2007 quando si presentò al cospetto del Barba, come lui avrebbe raccontato, e il Barba gli disse che non era venuto il momento. Mai così vicino alla morte, Dieguito. Ma in quel mercoledì di novembre, tre anni fa, il Barba non disse nulla, forse perché aveva visto le ultime sofferenze di Diego, il cerchio opprimente della sua solitudine, l’alcol come unico amico subdolo, il ricordo del passato un macigno sul cuore. Anche le sue ultime smargiassate erano diventate pura finzione. Non le reggeva più il suo carattere vivo e ribelle, forte e imbattibile. Quel carattere non c’era più. Non poteva esserci più, fiaccato dall’antica dipendenza assassina, dal tempo inesorabile, da un cuore duramente martellato. Il vecchio ragazzo, che aveva compiuto 60 anni venticinque giorni prima della fine, è morto in una casa misera così com’era nato nella miseria di Villa Fiorito. A Tigre in un condominio anonimo, lui che era stato il re del mondo. A Villa Fiorito, nella casa di mattoni e lamiera di papà Chitoro e mamma Tota, e nonna Salvadora che fumava la pipa, e zio Cirillo che aveva giocato al calcio da portiere, e cinque sorelle, primo figlio maschio. Una miseria diversa, alla nascita. La gioia e la festa per il pelusa. Diego nacque con una esagerata peluria in testa, poi avrebbe avuto riccioli neri da scugnizzo e faccia impudente da scugnizzo, il suo destino napoletano segnato da bambino. Ti vidi palleggiare con un’arancia, bimbo magrolino ma con le gambe già forti. Fu in una saletta Rai di viale Mazzini mentre Gianni Minoli montava per “Mixer” il documentario di Enrico Deaglio, Le gambe che hanno sconvolto il mondo ”, incerte immagini in bianco e nero sulle strade in terra battuta di Villa Fiorito. Eri già andato via da Napoli e quello fu il primo docufilm sulla tua vita prodigiosa. Poi è venuto il fantastico film di Emir Kusturica col racconto della tua perdizione, sincero fino a toccarci il cuore e ricordammo la tua prima confessione alla tv argentina, una confessione straziante, ma avevi finalmente vinto la tua partita più ardua e disperata e sul viso gonfio per i medicinali vedemmo riaccendersi la luce nei tuoi occhi neri. Ho sempre nel cuore l’abbraccio tra le lacrime nella tua casa di via Scipione Capece il giorno prima che lasciassi Napoli, vigliaccamente tradito. Chi non ha vissuto l‘incantesimo e la perdizione di Diego a Napoli, le delizie al San Paolo e al Campo Paradiso e le notti bianche alla Cachaca di via Petrarca e alla Stangata di via Martucci, e le notti balorde all’Hotel Paradiso, poco sopra casa mia a Posillipo, non potrà mai capire questo amore intenso per il pibe, il ragazzo infelice schiacciato dal successo che abbiamo amato per la sua vita drammatica, tradito, umiliato, squalificato, arrestato, il ragazzo che sul campo giocava un pallone gioioso e, fuori, si perse. Il ragazzo fragile e sincero, esagerato e generoso, felice e disperato che cercò di sfuggire a una intima solitudine chiedendo aiuto a una polvere bianca e maledetta.