Gente d'Italia

Mattarella alla XVI Conferenza delle ambasciatrici e ambasciatori d’Italia

"Rivolgo un saluto molto cordiale ai Vice Presidenti del Senato, della Camera e della Corte Costituzionale, al Cardinale Nunzio Apostolico. Saluto il Ministro degli Esteri, i Sottosegretari.

Ringrazio il Vice Presidente del Consiglio, il Ministro degli esteri Tajani per l’invito ad essere qui, questa mattina, per l’apertura di questa Conferenza, e sono davvero lieto della opportunità che è stata offerta di rivolgermi nuovamente alla Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia: mi permette di rinnovare, anzitutto, l’apprezzamento per il lavoro che la rete diplomatico/consolare svolge - nella doverosa rispondenza alle linee di politica estera definite, secondo la Costituzione, da Parlamento e Governo - al servizio esclusivo dell’interesse generale del nostro Paese, con il carattere insopprimibile di neutralità politica proprio di chi è chiamato a rappresentare la Repubblica.

Questa occasione per me rappresenta, anche, e consente la possibilità di esprimere la mia riconoscenza per la collaborazione, sempre eccellente, che ricevo nello svolgere la mia funzione.

Operate con la responsabilità di manifestare in modo concreto la vocazione dell’Italia ad agire per una comunità internazionale in pace, stabile e prospera.

Il vostro è un impegno prezioso e vi esprimo la riconoscenza della Repubblica.

Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori, affermare che stiamo vivendo tempi ordinari sarebbe negare l’evidenza.

Né può recare conforto la circostanza che, nella dimensione internazionale, periodi di pace e periodi di tensione e contrasto si sono frequentemente succeduti.

Perché non siamo in presenza della sola presunzione di determinare nuovi equilibri, indotti dall’affacciarsi, con determinazione, di protagonisti sino a ieri concentrati prevalentemente sulla rispettiva scena interna.

Le sfide di fronte alle quali l’umanità si trova, pongono a rischio la sopravvivenza del pianeta, a partire dalle conseguenze della condizione climatica, sino a modalità belliche - che ci riportano a epoche e condizioni che non hanno il diritto di riproporsi - in cui i popoli divengono ostaggi delle politiche aggressive dei rispettivi governi.

Derubricare a mera dimensione regionale l’attacco della Federazione Russa all’Ucraina sarebbe un errore capitale.

I suoi effetti destabilizzanti si avvertono in tutti gli angoli del globo e vulnerano gli strumenti internazionali di cooperazione e di dialogo.

Sovente, si attribuisce alla diplomazia la costrizione a un approccio che viene eufemisticamente definito “realista”, per indicarne abusivamente una presunta natura di mediocre cinismo. Mentre, al contrario, l’esercizio diplomatico corrisponde a una funzione alta, di strumento di manifestazione autentica dei valori più profondi di una comunità.

L’opposto equivarrebbe a riproporre l’interrogativo novecentesco del deputato francese Marcel Deat “Morire per Danzica?”. Tutti ricordiamo quale seguito ebbe.

Le “prove” di guerra contengono, in loro stesse, un terribile “cupio dissolvi”.

A interpellarci è il fenomeno – non nuovo, se è vero che caratterizzò anche gli anni della fine dell’800 - della globalizzazione che, dai commerci e dalla circolazione delle idee, si è allargata oggi, in misura ben più ampia, con la esistenza di piattaforme di condivisione delle esperienze di ciascuno, in tempo reale e con una pervasività che, mescolando, sovente, realtà e virtualità, vede poste a rischio le fondamenta dell’esercizio in modo autonomo del libero spirito critico di ciascuno.

La discussione circa la globalizzazione intesa come periodo, piuttosto che come processo, è tutt’altro che oziosa.

Importa il ritorno a sensibilità prevalenti prima della Conferenza sulla Cooperazione e la Sicurezza in Europa e delle deliberazioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in tema di diritti e doveri economici degli Stati.

Riguarda, cioè, il tema della costruzione delle regole della comunità internazionale.

Dal cuore di un’Europa, frantumata dalla drammatica esperienza della Seconda guerra mondiale, emerse l’urgenza di abbandonare i criteri che avevano caratterizzato le tradizionali conferenze successive ai conflitti dei due secoli precedenti, puntando a guardare avanti anziché al passato.

L’obiettivo diventava non più quello di imporre condizioni ai perdenti affinché, nel prevedibile conflitto successivo, le parti in quel momento trionfanti fossero in vantaggio, quanto, piuttosto, di porre le premesse affinché la guerra scomparisse dal dizionario delle relazioni internazionali.

Ed è quanto afferma, solennemente, l’art.11 della nostra Costituzione, che appare in perfetta sintonia con il paragrafo 4 dell’art.2 della Carta delle Nazioni Unite: “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

In buona sostanza, veniva posto fuori corso lo “ius ad bellum” - il diritto di muovere guerra - espressione, a lungo, considerata attributo imprescindibile della sovranità di una nazione.

È la nascita del quadro multilaterale.

Un quadro che ha, purtroppo, mostrato, in questi decenni, limiti strutturali presenti dalla sua nascita, derivanti anche dalla registrazione del ruolo prevalente attribuito alle potenze allora vincitrici nel Consiglio Sicurezza dell’Onu, al quale veniva delegato, in teoria, l’onere del monopolio del diritto di intervento nelle dispute fra Stati.

Da queste costatazioni rileva il carattere globale dell’invasione da parte russa del territorio di un’altra nazione, a partire dalla Crimea e dai territori della Georgia. L’intento appare quello di ridurre di nuovo l’Europa frantumata, in pezzi, impotente.

Di congelare i rapporti fra Paesi, impedendo il libero esercizio della loro sovranità, così come era già accaduto, ad esempio, ai tempi della “Cortina di ferro”, con l’applicazione della teoria della “sovranità limitata”.

La pretesa del riemergere, nel terzo millennio, della logica “imperiale” è inaccettabile.

A suffragarla non soccorre neppure più l’alibi ideologico, di confronto/competizione tra sistemi basati sui progetti di vita contrapposti.

Rimane soltanto la logica della prepotenza.

Ecco la ragione elementare per puntare sul multilateralismo per quei Paesi - come l’Italia – che rifiutano intenti imperialisti e non hanno l’ambizione di essere “satelliti” di alcuno bensì di cooperare, da pari, con tutti gli Stati e i popoli di buona volontà, anche per governare la globalizzazione, facendone crescere la coincidenza con il perimetro della libertà e del benessere.

Affermando, inoltre, il principio della sovranità democratica rispetto alla sovranità di fatto, talvolta pretesa da imprese “over the top”, convinte di essere titolari del diritto di dettare regole.

La tentazione di fare a pezzi il sistema multilaterale passa attraverso l’uso spregiudicato di numerose pratiche: eserciti privati utilizzati come mercenari nei teatri di guerra. Militarizzazione e privatizzazione dello spazio, a lungo e finora teatro, invece, di buone pratiche di cooperazione. Uso della disponibilità di risorse energetiche e alimentari come arma strategica. Esercizio dell’evasione da legislazioni ritenute stringenti per spingere verso il basso i livelli di tutela degli interessi generali. Per indicare soltanto alcune, di queste cause, di questi strumenti.

Tutto questo nel momento in cui le scelte che davvero contano - ce ne ha dato esempio la Cop28 - sono il frutto di “filiere lunghe”, che coinvolgono organismi e conferenze internazionali, attori continentali come la Unione Europea e quella Africana, i singoli Stati, le forze economiche e sociali della società civile.

La dimensione della concertazione internazionale rientra da ogni parte e da ogni porta.

Né gli autori della destabilizzazione e del disordine possono immaginare che la comunità internazionale rinunci ad autorganizzarsi, ad auto-regolamentarsi solo perché forze ostili - inclusi i gruppi di ispirazione terroristica - pretendono di avere argomenti a giustificazione dei propri atti.

E, di conseguenza che - la comunità internazionale - debba rinunciare a difendere i valori della pace, dello sviluppo e della convivenza sanciti nella Carta delle Nazioni Unite.

Sino all’altro ieri era stato il venir meno dei blocchi storici della “Guerra fredda” ad avere riaperto - dopo il periodo ricco di speranza che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino, con rinnovata vitalità delle Nazioni Unite - spazi di iniziative per ambizioni di protagonismo regionale.

Mentre, per un’epoca di durata considerevole, i maggiori protagonisti della vita internazionale hanno saputo assumersi le proprie responsabilità, contribuendo alla stabilità e alla coesistenza pacifica, oggi, palesemente, non è più così.

Scatenare una guerra, con conseguenze che si sono riverberate a livello globale, rende dubbia se non esclusa l’idoneità a essere fra i suggeritori di soluzioni per uscirne. E l’esempio è piuttosto contagioso, in tutti i continenti.

Consentitemi adesso di riprendere il tema dei due principali scenari di crisi del tempo presente, sia perché il loro impatto ci riguarda da vicino, sia perché, come anticipato, esemplificativi di tendenze che occorre contrastare.

In Medio Oriente, il movimento terroristico Hamas ha innescato spirali di violenza di immani proporzioni, riuscendo anche nell’intento di sabotare, congelandolo nel breve periodo, ogni tentativo di dialogo.

Il barbaro assassinio di centinaia di cittadini israeliani inermi ha riavviato una guerra atipica fra lo Stato di Israele e una formazione terroristica che controlla di fatto un territorio, con i civili, siano essi israeliani o palestinesi, chiamati a pagare tragicamente il prezzo più alto.

Il terrorismo avanza laddove la proposta politica perde terreno, o l’impegno di paziente tessitura di soluzioni diplomatiche rimane frustrato, nonostante il trascorrere dei decenni.

Il conflitto israelo-palestinese è innegabilmente il risultato della prolungata incapacità di costruire tali percorsi di dialogo e di convivenza, e di perseguire l’unica strada ragionevole: la soluzione dei due Stati.

Rinunciare ad affrontare i problemi lascia aperti varchi in cui si infilano gli estremismi.

La crisi mediorientale, con il suo portato d’odio, ha fatto riemergere dal suo fiume carsico anche il fenomeno dell’antisemitismo, che, oggi come ieri, si nutre di luoghi comuni e di una visione distorta della Storia. Derivazione di sottoculture che resistono al tempo e alla ragione, veri e propri “magazzini dell’odio, mai svuotati della loro merce tossica”, come le ha recentemente definite la Senatrice Liliana Segre.

Si tratta di messaggi che debbono incontrare la più netta condanna, senza ambiguità, senza interpretazioni di comodo.

Lo scenario di terre contese, di diritti negati, riguarda, con l’Ucraina, anche l’Europa.

Una ferita aperta nel cuore del nostro continente, riportando indietro le lancette della storia, a quando si riteneva possibile decidere le sorti di interi popoli in base a spartizioni di territori e di sfere di influenza.

Da 22 mesi il popolo ucraino si pone come argine a questa deriva e, ancora una volta, sono le vittime civili a pagare un prezzo alto.

Si presenta, in questo scenario, come a Gaza, la necessità di rendere stringenti le regole, anche in guerra, di quel diritto internazionale umanitario la cui urgenza emerse addirittura – come sappiamo - già con la Convenzione di Ginevra nel 1864.

È inammissibile che, in conflitti armati di questo secolo, vengano esercitati attacchi e rappresaglie che colpiscono la inerme popolazione civile.

Tocca alla comunità internazionale impedire nuove avventure a questa politica di sopraffazione che trova emuli in diverse situazioni e in più continenti.

Signore Ambasciatrici, Signori Ambasciatori,

in una realtà segnata da spinte destabilizzanti e dal rafforzarsi di grandi attori globali, lo spazio politico per l’esercizio di una effettiva sovranità in cui trovano posto i valori e gli interessi della Repubblica Italiana è, condivisa, nell’Unione Europea.

All’Unione si appartiene, anzitutto, per una scelta di valori: pace, libertà, coesione sociale, democrazia, Stato di diritto. Contrapporvi un’affermazione di esclusivo esercizio di sovranità solitaria - che sarebbe sempre più soltanto apparente - risulta illusorio e sterile.

Appare del tutto incoerente vedere - nel dibattito europeo - per chi ha scelto liberamente di appartenere all’Unione, agitare una inconsistente contrapposizione tra Europa degli Stati ed Europa sempre più integrata.

Dalla coscienza dell’Europa, anche dopo il recente vertice, si leva il fermo impegno a rilanciare l’orizzonte di un multilateralismo sempre più rispettoso del futuro dell’umanità.

Per la sua stessa natura l’Unione Europea deve evolvere per non arretrare, e oggi più che mai abbiamo il dovere di rilanciare il processo di integrazione, rafforzandone i meccanismi di governance.

Come ogni costruzione umana, l’Unione Europea non è perfetta: è un cantiere permanente, da puntellare quotidianamente con il lavoro di tutti, unendo, insieme, resilienza, ferma chiarezza e pazienza, come è necessario per la conclusione dei negoziati in atto per il Patto di stabilità e crescita.

È un cantiere da completare nella sua architettura, non potendo troppo a lungo reggere una costruzione parziale.

Non possiamo che guardare con impazienza ai passi ancora necessari per la costruzione di una vera politica estera e di difesa europea.

Le crisi in atto ci impongono di agire insieme, continuando a lavorare allo sviluppo di maggiori capacità e di risposte comuni - in costante coordinamento con i nostri alleati e con la Nato - nella consapevolezza di dover aumentare nell’Unione il nostro grado di capacità strategica e di responsabilità.

La sicurezza europea dipenderà sempre più dalla capacità degli europei stessi di provvedervi.

La costante attrazione storica del progetto di integrazione trova conferma nella volontà di molti Paesi di esserne parte.

Il processo di allargamento si è rivelato, negli ultimi decenni, uno dei più importanti strumenti al servizio della stabilità dell’intera area continentale.

Al riguardo, la recente decisione del Consiglio Europeo di aprire i negoziati per l’adesione con l’Ucraina e la Moldova e di concedere lo status di candidato alla Georgia, fanno stato dell’avanzamento dei nostri partner orientali nel percorso di avvicinamento all’Unione.

Occorre tuttavia essere effettivi, nei tempi e nei modi.

A vent’anni dalla Dichiarazione di Salonicco, è fondamentale procedere all’integrazione dei Balcani occidentali, a partire da quei Paesi che hanno da tempo avviato un percorso di riforme per entrare a far parte della famiglia europea.

Le tensioni nei Balcani suonano come campanello d’allarme sull’attenzione da rivolgere ai popoli di questa regione.

È di rilievo positivo che il Consiglio Europeo abbia contemplato la possibilità di avvio dei negoziati per la Bosnia Erzegovina.

Allargamento e approfondimento dei meccanismi di integrazione economica e politica sono due aspetti strettamente connessi.

Affinché l’Unione Europea possa svolgere un ruolo rilevante a livello interno ed internazionale, essi debbono procedere di pari passo.

Una esigenza, questa, che dovrebbe indurci ad un sempre maggiore ricorso al voto a maggioranza.

Tra sei mesi saremo parte di quel grande esercizio di sovranità popolare, rappresentato dalla elezione del Parlamento Europeo; a cui farà seguito la designazione della nuova Commissione Europea.

Vanno riprese con solerzia le riflessioni interrotte dopo la conclusione della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Non basta tirare avanti per inerzia.

Signore Ambasciatrici, Signori Ambasciatori,

in un quadro tanto complesso, la scelta multilaterale dell’Italia si declina anche nel convinto sostegno all’azione delle Nazioni Unite, fulcro di quella architettura di governance mondiale oggi così palesemente sotto pressione.

Si tratta di una crisi di fiducia che si manifesta sovente nella contrapposizione, per molti versi pregiudiziale nella sua artificiosità, fra Occidente e resto del mondo e che tende ad aggregare, in questa denominazione, condizioni anche con molte differenze - di volta in volta economiche, sociali, di assetti istituzionali, di rispetto dei diritti umani - cercando di accantonare, nell’immagine, incompatibilità e interessi discordanti.

Il patrimonio di valori che si intende definire come occidentali corrisponde, in realtà, a molti dei documenti fatti propri dagli Stati nell’ambito delle Nazioni Unite: Stato di diritto, diritti umani, diritti dei popoli nella accezione più ampia.

Sul piano dell’architettura di governo multilaterale - miglior baluardo alle spinte destabilizzanti che stiamo sperimentando - occorre restituire slancio a una riforma che renda più efficaci i meccanismi spesso tuttora cristallizzati a immagine del secondo dopoguerra, come pocanzi cercavo di ricordare.

Si tratta di un processo evolutivo, che richiederà tempo e realismo e che attiene, in primo luogo, ad una revisione di quegli strumenti di governo economico mondiale, che oggi rappresenta una priorità per i Paesi del Sud globale.

L’Europa ha il dovere e l’interesse strategico di lavorare con quei Paesi che condividono i principi democratici e che sollecitano, tuttavia, maggiore attenzione alle loro istanze. Uno sviluppo equilibrato delle regioni del mondo è nell’interesse di tutti.

L’Italia si trova in una condizione privilegiata per contribuire a questa azione.

Con l’assunzione della Presidenza del G7, avremo la possibilità di dare ulteriore impulso a molte sfide globali, tra le quali trovano posto quella dei flussi migratori e quella della sicurezza alimentare. Tematiche fra loro strettamente connesse, soprattutto nel continente africano.

Al centro della Presidenza italiana vi sarà anche il tema dell’Intelligenza Artificiale: un avanzamento scientifico che apre all’umanità opportunità di affrontare e risolvere problemi che credevamo al di là delle nostre possibilità, ma che espone al tempo stesso al rischio di pericolosi condizionamenti nell’informazione, di intrusioni nella sfera privata dell’individuo, di mutamenti radicali degli assetti produttivi, di potenziale crescita del già rilevante divario fra ricchi e poveri, fra forti e deboli. In ultima analisi a un rischio di tenuta per i sistemi democratici.

Si tratta di una prospettiva di grande valore che andrà adeguatamente e sollecitamente governata per trarne tutta la portata positiva.

Desidero concludere ringraziandovi per l’attenzione e augurando a tutti voi buon lavoro per questi due impegnativi giorni di approfondimento e per l’anno laborioso che ci attende.

Auguri".

 

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