di PINO NICOTRI
Il giornale tedesco Bild il 15 gennaio scorso ha scritto che documenti segreti della NATO prevedono una guerra con la Russia già nell’estate dell’anno prossimo, 2025.
Il Cremlino ha immediatamente bollato l’articolo come una bufala, ma Regina Coeli è piena di innocenti.
Sarà anche una bufala, ma sta di fatto che la NATO intanto ha programmato in Europa la più grande esercitazione militare dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. L’esercitazione si chiama Steadfast Defender 2024 e durerà fino a maggio.
Se non è per l’anno prossimo, la guerra totale con la Russia ci sarà comunque nei prossimi 20 anni: lo ha detto chiaro e tondo il 19 gennaio il Presidente del Comitato militare Rob Bauer:
“I cittadini civili devono prepararsi per una guerra totale con la Russia nei prossimi 20 anni. Consideriamo la Russia una minaccia, e dobbiamo essere pronti per un attacco. Serve un’industria che produca armi e munizioni più velocemente””.
Le forze armate sono già preparate allo scontro, ma secondo Bauer non lo è la popolazione civile. Motivo per cui questa deve cominciare a prepararsi fin da ora anche perché tale guerra richiederebbe un cambiamento radicale nelle vite di tutti. Compresa quindi anche la nostra….
Come ci si deve preparare resta un mistero, come fosse un particolare irrilevante. L’importante è fare la guerra, il resto, cioè la popolazione civile, viene dopo. Come diceva il maresciallo Charles De Gaulle e forse Napoleone prima di lui, “l’intendenza seguirà”.
La gara delle Cassandre a prevedere quando scoppierà tale guerra indica anche altre date. Per il ministro delle difesa tedesco, Boris Pistorius, la si deve prevedere nel giro di 5-8 anni. Per il ministro della Difesa norvegese Eirik Kristoffersen e la premier del governo estone Kaja Kallas il conflitto potrebbe materializzarsi prima, entro tre anni.
Lasciamo nel post scriptum alla fine di questo articolo le spiegazioni del perché la paura o meglio la certezza di un’invasione russa dell’Europa come dell’invasione dell’Ucraina è priva di fondamenta. Se non altro perché già solo gli USA spendono per le loro forze armate 12 volte quello che spende la Russia.
Se poi alla spesa militare USA aggiungiamo quella dell’Unione Europea e dell’Inghilterra, non c’è proprio confronto: la spesa militare russa diventa quasi irrisoria. Senza contare che mentre tutto attorno alla Russia c’è una marea di basi, flotte militari e portaerei NATO e USA dotate anche di atomiche.
La Russia invece di basi militari all’estero ne ha molto poche, fuori dall’Asia Centrale ex sovietica solo un paio. Perciò può solo fare delle rappresaglie devastanti da qualche sottomarino o con missili intercontinentali. Ma non può certo mai sperare di poter invadere gli USA o l’Inghilterra o l’Europa occidentale e tanto meno di mantenerne l’occupazione. In queste condizioni un attacco della Russia all’Europa sarebbe sicuramente e chiaramente un suicidio.
Ma allora perché questo improvviso e insistente rullo di tamburi e squilli di trombe militari?
La risposta è semplice. Gli Stati Uniti per poter giustificare le loro colossali spese militari hanno bisogno fin da qualche tempo dopo la seconda guerra mondiale di quello che a un certo punto è stato definito il Nemico Necessario. Identificato man mano nell’URSS e annessa “guerra fredda”, nella Corea, nel Vietnam, in Cuba, in Grenada, nell’Iraq, nell’Afganistan, nella Siria, nell’Iran, ora anche nello Yemen.
Qualcosa di simile sta avvenendo in Europa, che deve in qualche modo giustificare le enormi cifre spese per sostenere l’Ucraina in guerra e il conseguente aumento delle spese nel settore militare provocato dal perdurare della guerra russo ucraina, con annesso danno all’economia.
Vediamo dunque come è nata e come è cresciuta la figura del Nemico Necessario. Con l’annesso e connesso enorme sviluppo dell’industria e della ricerca scientifica militari e della loro capacità di trainare lo sviluppo della produzione civile tanto da far nascere l’espressione “warfare” come erede o complemento del “welfare”.
IL NEMICO NECESSARIO
Il 17 gennaio 1961, nel suo discorso di addio alla Casa Bianca dopo due mandati, il Presidente Dwight Eisenhower rivolto all’intera nazione volle avvertirla del pericolo implicito negli accordi segreti fra potere politico, industria bellica e militari:
“Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione. […] Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un’enorme industria di armamenti è nuova nell’esperienza americana.
“L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del Governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo.
“Ma, tuttavia, non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse ed il nostro stile di vita sono coinvolti. E così la struttura portante della nostra società. Nei concili di Governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi sia occulte, esercitate dal complesso militare-industriale.
“Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste, ora, e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito.
“Soltanto un popolo di cittadini all’erta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine, in modo che sia la sicurezza sia la libertà possano prosperare assieme”.
Coniata da un militare di carriera, reduce dalla Seconda guerra mondiale e dalla presidenza USA, nasceva così l’espressione “complesso militar-industriale”.
Al termine della Seconda guerra mondiale, l’importanza dei militari raggiunse il suo apice, favorito per gran parte dalle condizioni che alla fine del conflitto servirono come premesse oggettive per la politica di Guerra Fredda.
Le spese militari USA nel corso del conflitto contro Giappone, Germania e Italia, si erano sestuplicate: tra il 1940 e il 1945 gli USA spesero non meno di 185 milioni di dollari in carri armati, aerei, navi, ed ogni altra tipologia di materiale bellico.
Ciò diede un notevole impulso all’economia del Paese. La partecipazione delle spese militari al PIL nordamericano – che era cresciuto tra il 1939 e il 1944-45 da circa 90 miliardi di dollari a 200 – subì un notevole incremento, passando da un insignificante 1,5% nel 1939 a quasi il 40% nel 1944-1945. In tale contesto, le relazioni tra i gruppi monopolisti produttori di armamenti e la burocrazia politico-militare, esistente da molto tempo, subirono un’impennata senza “precedenti, anche grazie al clima di Guerra Fredda che emerse con la fine della Seconda guerra mondiale.
Nasce così quello che viene comunemente definito “Keynesismo Militare”, “Economia di Guerra” o “Economia del Pentagono”.
Durante le due Guerre Mondiali si era andato definendo il sistema di vincoli e legami tra i monopoli e la burocrazia politico-militare, strettamente connesso con l’organizzazione ed il funzionamento dell’apparato industrial-militare, che rappresentava un assunto di prim’ordine per agire in circostanze di guerra, ma i cui vincoli raggiunti – al medesimo tempo e contrariamente ad altre fasi anteriori del capitalismo – smisero d’avere carattere congiunturale imposto da crisi politico-militari momentanee.
Convertendosi in un fenomeno che in misura sempre maggiore cominciava a formare parte integrante del meccanismo generale di funzionamento di riproduzione capitalista. In altre parole, la produzione di armi e bellica in generale, iniziava a far parte del meccanismo di riproduzione del capitale in maniera strutturale. Essa veniva fortemente stimolata dal vantaggio rappresentato, per i gruppi industrial-militari, di poter produrre a carico del bilancio dello Stato federale.
Nel caso specifico degli Stati Uniti, una volta superata la fase bellica, rimaneva un’infrastruttura industriale sufficientemente solida per servire da strumento di difesa o da strumento per “mantenere la pace” o, come successe nel secondo dopoguerra, da strumento di sostegno dell’egemonia raggiunta dagli Stati Uniti.
Questa egemonia si rafforzò quando, quasi verso la fine della Seconda guerra mondiale, l’allora presidente Harry Truman decise di lanciare ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, dietro il pretesto di concludere rapidamente la guerra con il Giappone.
In realtà lo fece per mandare un messaggio di ricatto nucleare – prima di tutti – all’URSS. Opinione quest’ultima condivisa da un numero sempre maggiore di specialisti.
A loro volta, nella successiva epoca della Guerra Fredda vera e propria, le azioni dirette a rinforzare la capacità militare nordamericana (già allora nucleare) da parte di tutte le potenze europee, ancora imperialiste coloniali, erano armonizzate e spinte dalla ricerca di una superiorità strategica nei confronti dell’URSS. Il che divenne oltretutto un tema centrale del discorso politico.
A partire da allora l’Unione Sovietica emerse come il principale soggetto sul quale si articolava la politica militare – e in particolare nucleare – degli USA: nacque così il “nemico necessario”.
La guerra di Corea, che ha visto impegnati gli USA per tre anni, dal 1950 al luglio 1953, è stata un ulteriore stimolo per l’ampliamento anche dell’industria civile.
Tanto che il National Security Council, il massimo organo che affianca il presidente USA per quanto riguarda la sicurezza nazionale e la politica estera, emanò la direttiva numero 68 (NSC68): 66 pagine intitolate “United States Objectives and Programs for National Security” e rimaste segrete fino al 1975.
La direttiva raccomandava l’aumento delle spese nel settore militare perché (anche) la guerra di Corea aveva dimostrato che la crescita di tale settore aveva fatto da traino per lo sviluppo e la crescita dell’industria e della produzione civili.
In sintesi, il National Security Council raccomandava la politica del riarmocontinuo.
Dal WELFARE AL WARFARE
Le dimensioni degli investimenti pubblici USA in Research and Development (Ricerca e Sviluppo o in acronimo R&D, NdA) militari sono indicative del fenomeno nella sua globalità. Nel 2008 il 30% di tutti gli scienziati “ed ingegneri che lavoravano nella R&D d’ambito industriale operavano in settori attinenti ad attività militari, un po’ meno del 50% di tutta la spesa classificabile come ‘R&D’ negli USA era sostenuta dal Governo federale, e 2/3 circa di tutta la spesa federale in R&D andava ad attività collegate con il Pentagono.
In ultima istanza ciò significa che circa il 30% delle spese nazionali statunitensi in R&D andavano a programmi militari. “Allo stesso tempo, circa il 40% di tutta la spesa mondiale in ‘Ricerca’ era spesa per ‘Ricerca militare’.
Il numero di scienziati ed ingegneri che nel 2008, in tutto il mondo, lavoravano su programmi militari si aggirava intorno a 400.000, pari a circa il 40% del totale globale di tutti gli scienziati ed ingegneri in attività. Percentuali che aumentano se poi ci si limita alle categorie di fisici ed ingegneri. Percentuali e cifre che dal ’98 ad oggi sono man mano molto aumentate, a causa del grande sviluppo di Paesi come Cina, India, Brasile, Turchia, Iran, Israele, Arabia Saudita ed Emirati arabi.
Ma come si è arrivati a tanto?
Per superare la Grande Depressione del 1929 la politica del New Deal di Franklin Delano Roosevelt aveva ottenuto risultati economici in realtà solo parziali.
Quattro anni dopo il lancio del New Deal, nel 1937, gli USA erano di nuovo nel pieno di una crisi economica.
Ciò che salvò l’economia americana – ed è stato il vero motore che ha portato gli Stati Uniti fuori dalla Grande Depressione – fu la loro entrata in guerra nel 1941 dopo l’attacco del Giappone a Pearl Harbor, attacco molto probabilmente lasciato sferrare onde poter avere una buona motivazione per spingere l’opinione pubblica alla guerra. Incrementata dalle necessità bellica, la spesa governativa USA crebbe enormemente.
E l’economia americana cominciò a funzionare a pieno regime. Finita la guerra, l’interruzione della produzione bellica e la conseguente smobilitazione produssero una nuova recessione. Questa volta gli USA si salvarono con l’inizio della Guerra Fredda, “che prese rapidamente il carattere del confronto militare e della corsa agli armamenti.
La presenza di armi atomiche – dapprima solo americane e dal 1949 anche sovietiche – aggiunse a tale riarmo un carattere d’eccezionale gravità. Nell’epoca della Guerra Fredda le azioni di tutte le potenze occidentali, USA in testa, furono tese ad aumentare le capacità militari alimentate dalla ricerca di superiorità strategica nei confronti dell’URSS. Che da allora emerse come principale tema di politica militare – specie di quella nucleare – degli Stati Uniti: il “nemico necessario”.
La conseguente follia alimentata dalla Guerra Fredda portò gli USA a produrre decine di migliaia di bombe atomiche di tutti i tipi, sempre più potenti, e poi anche sempre più miniaturizzate in modo da poter essere usate come ordigni pressoché “normali”.
Così l’Unione Sovietica è stata costretta ad un’eterna rincorsa per fare altrettanto. Con l’inevitabile accodarsi di tutti i Paesi che potevano accedere alle capacità nucleari: dall’Inghilterra alla Cina, dalla Francia all’India, da Israele al Pakistan.
Un grande complesso militar-industriale non può però giustificare la propria esistenza se non esercitando il ruolo per il quale è stato edificato, cioè quello di strumento di politica militare. Ecco spiegato il perché della guerra in Vietnam, e il conseguente peso crescente dell’establishment militare e dell’industria bellica nella politica USA.
Tale tipologia di spese rappresenta però, alla lunga, un handicap per l’economia a stelle e strisce per vari motivi, in primis la perdita d’efficienza che essa comporta. Il settore militare è protetto dagli incerti del mercato perché i profitti sono garantiti, ed è normale far lievitare i costi se gli impegni sono di lungo periodo.
Tali aspetti, peraltro, garantiscono una domanda certa per le imprese coinvolte nella produzione, perché non devono affannarsi a rinnovarsi continuamente per affrontare il futuro. Ma, in realtà, tutto ciò costituisce anche una situazione ideale per alimentare inefficienza, ruberie e sprechi. Che sommate alla rigida burocrazia di settore costituiscono tutti elementi di notevole peso per l’economia. Peso che diventa perdita di competitività e produttività.
Come se non bastasse, il richiamo esercitato dalla possibilità di lavorare in imprese scientifico-tecnologiche di grandi dimensioni fa capire come la R&D militare comporti un vero e proprio ingente drenaggio di cervelli e risorse dal settore civile.
POST SCRIPTUM
Almeno ufficialmente la Russia ha invaso l’Ucraina per porre fine alle aggressioni e alle discriminazioni del governo di Kiev contro la robusta minoranza russofona del Donbass orientale, ostilità iniziate nel 2014 e causa della decisione di tale minoranza di proclamare due piccole repubbliche popolari autonome. Autonome, ma non ancora secessioniste.
Tale proclamazione è stata contrastata da Kiev anche con le armi, soprattutto con bande paramilitari di estrema destra come la famosa e famigerata Azov, la meno nota Pravi Sector (in italiano Settore Destro) e altre ancora, innescando così una guerra civile con qualche decina di migliaia di morti.
Per quanto riguarda la Crimea non è stata necessaria nessuna invasione: è bastato organizzare un referendum con il quale la grande maggioranza russofona ha deciso di separarsi dall’Ucraina e tornare a far parte della Federazione Russa.
Della quale Federazione faceva parte fino a quando l’ucraino Nikita Krushev, un anno dopo essere succeduto nel 1953 a Giuseppe Stalin al timone di quella che allora era l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), decise di accorparla amministrativamente alla sua amata Ucraina, che dell’URSS faceva parte.
Negli Stati dell’Europa orientale membri dell’URSS fino al suo scioglimento, avvenuto il 26 dicembre 1991, vivono non trascurabili minoranze russofone: tutte malviste dai rispettivi governi e spesso anche da buona parte del resto della popolazione.
Così stando le cose, non si può escludere con sicurezza che la Russia non si veda costretta a difendere quelle minoranza anche con interventi militari, per quanto decisamente improbabili per tutta una serie di motivi.
Il più importante dei quali è che la Russia spende per le forze armate solo una frazione di quanto spendono gli USA e l’Unione Europea, con la conseguenza di un esercito che, come ha dimostrato anche la guerra in Ucraina, è più adatto alla difesa del proprio territorio che all’invasione di territori altrui.
La Storia dimostra che la Russia, invasa dagli svedesi, dai francesi di Napoleone, dai tedeschi di Hitler e dagli italiani di Mussolini subendo costi umani spaventosi e distruzioni su larga scala, non ha mai tentato di invadere l’Europa.
Se è arrivata ad esercitare l’egemonia politico militare su Stati dell’Europa Orientale è stato solo perché, invasa dalla Germania nazista e dall’Italia fascista con la seconda guerra mondiale, ha prima resistito e poi reagito respingendo gli invasori fino a Berlino.
Vinta la guerra, ha stipulato con gli alleati angloamericani il patto di Yalta, col quale l’Europa è stata divisa in due sfere di influenza: l’Europa occidentale nella sfera d’influenza statunitense, con la successiva e conseguente versione militare nota come NATO, e l’Europa orientale nella sfera d’influenza sovietica, con conseguente versione militare nota come Patto di Varsavia, dirimpettaio e antagonista della NATO.
Finché la morte dell’Unione Sovietica ha posto fine all’influenza sovietica e al Patto di Varsavia.