di MARIO PICCIRILLO
ROMA – Una settimana fa appena, un allenatore di Serie A voleva sgozzare un collega. Fermo per fortuna all’intenzione – esplicitata didascalicamente mimetizzando il gesto, non fosse abbastanza chiaro il “ti taglio la gola” – Juric è stato poi squalificato per due giornate. Il suo “amico” Vincenzo Italiano, la vittima presunta, lo aveva già perdonato con un commovente abbraccio in diretta tv. Perché il calcio è così: procede di redenzione espressa, ogni sua deviazione include un perdono. E’ sempre, tutto, “una questione di campo”, che una volta – preistoria mediatica – restava tale; adesso le telecamere osservano ed è un problema. Per cui non c’era verso che la testata rifilata dal tecnico del Lecce D’Aversa all’attaccante del Verona Henry non finisse con un esonero lampo. Non tanto per l’inaccettabilità della rissa, e del deficit educativo sottinteso, ma perché molto più pragmaticamente il Lecce andava malissimo già da un po’. Quella sì, una questione di campo.
Fa sempre un po’ ridere il cerimoniale che segue ogni fatto del genere: l’allenatore spiega, si giustifica (“è stata la tensione, l’adrenalina!”) si scusa ma non troppo (“non l’ho colpito io, abbiamo solo fatto testa a testa…”); la controparte raffredda gli animi, riportando l’isteria al solito galateo per uomini veri, presi dal trasporto agonistico. Il non detto è “che ne sapete voi, che ve ne state belli tranquilli sul divano… qui ci giochiamo la salvezza!”. Ma c’è una casistica infinita di perturbazioni mentali a dipingere il calcio italiano come brutto e cattivo, perlomeno un po’ scemo. Niente di inedito.
Il calcio è sempre quello di Landucci – vice di Allegri alla Juve – che l’anno scorso urlò a Spalletti “ti mangio il cuore, pelato di merda”. O quello di Totò Schillaci che a Poli, Bologna-Juventus 1990, disse “ti faccio sparare”. Poli, pare, gli aveva sputato in faccia. E allora il giudice sportivo diede due giornate di squalifica a Poli, e una a Schillaci. Ah, la giustizia sportiva: quante soddisfazioni.
DELIO ROSSI CONTRO LJAJIC, E GLI PRECEDENTI
Di precedenti è pieno il pallone. Il calcione rifilato – 26 agosto 2007, prima giornata di campionato… – dall’allenatore del Catania Silvio Baldini a quello dirimpettaio, del Parma, Mimmo Di Carlo. Il dito nell’occhio di Josè Mourinho (allora al Real Madrid) al vice-allenatore del Barcellona Tito Villanova. O la stretta di mano da wrestling di Tuchel e Conte, in Premier League. Ma IL precedente vero, impareggiabile, è uno e uno solo: Delio Rossi.
Stagione 2011/12, 2 maggio: Fiorentina-Novara. L’attacco viola è affidato alla coppia Ljajic-Cerci. Dopo appena mezzora Rossi, sotto 2-0 in casa contro la penultima in classifica, cambia: dentro Ruben Oliveira, fuori Adem Ljajic. Il serbo tornando in panchina dice qualcosa e lo applaude ironicamente. Rossi scatta, come impazzito: gli si scaglia addosso, lo incastra sulla panchina, carica un pugno dopo l’altro. Li dividono. Rossi si rivolge verso l’arbitro Giannoccaro, alza le braccia come a dire “tutto ok, a posto”.
No, non è tutto a posto. Youtube pompa l’episodio a ritmi virali. Negli studi Sky si parla di “scena raccapricciante”. La Fiorentina lo esonera dopo la partita, con rito abbreviato. In Rai Boniek lo difende, parla di “pugno del padre verso il bambino”. Sconcerti su Sky invoca il codice penale, perché picchiare la gente è reato.
Rossi andrà in conferenza stampa, parlando di “moralisti, molti perbenisti che si sono permessi di dare dei giudizi senza aver vissuto la situazione, senza sapere la storia di un uomo, senza sapere di chi parlavano”. “Se il gesto è stato brutto – disse – in uno spogliatoio passava per un gesto virile o sanguigno, mentre davanti alle telecamere passa solo per un gesto di violenza. Penso che non sia giusto, penso che se un gesto è deprecabile è deprecabile sempre. Non ho mai detto di essere Padre Pio. Prima di dare un giudizio su una persona devi camminare due giorni con i suoi mocassini”. Proverbio più o meno indiano. Il calcio è pur sempre un far west. O, meglio, la sua parodia.