di MARIO PICCIRILLO
ROMA – Ayrton Senna era morto una prima volta il 30 aprile 1994. Di sponda sul povero Roland Ratzenberger, il milite ignoto della Formula 1. Un invisibile austriaco che diciotto minuti dopo l’inizio delle qualifiche del Gran Premio di San Marino, per coerenza col destino, fu inquadrato dalla telecamera piazzata alla Tosa come un oggetto volante non identificato. Un frame viola che s’espande nella successiva inquadratura fino a trasformarsi in una nuvola nera di polvere e terriccio. Senna vide quelle immagini impudiche come tutti, a cose fatte. Alla curva Villeneuve (un martire a vegliare) c’era la testa dell’austriaco a penzoloni sulla Simtek devastata, come un manichino rotto. Fu il trauma che tutti non fummo capaci di elaborare per mancanza di tempo. Nemmeno Senna, che aveva la stessa età di quel rookie pagato a gettone e lo stesso futuro incombente, quasi anteriore.
Il giorno prima Rubens Barrichello, brasiliano come lui, era andato in testacoda con la sua Jordan-Hart, s’era rotta la sospensione posteriore sinistra: il traverso sul cordolo esterno della Variante Bassa l’aveva fatto decollare, e poi rotolare come fanno solo le macchinine dei bambini. Lo intubarono. Barrichello restò vivo, con il setto nasale rotto, una costola incrinata, un braccio fasciato e una leggera amnesia. Era un avvertimento, per chi ci credeva. Senna, per esempio, era uno che ci credeva.
Senna diceva di aver visto Dio mentre guidava, in varie occasioni. E lo disse una volta in una iconica intervista del 1990 a Playboy. Un accostamento che parlava di lui più delle sue stesse virgolette. “In quel famoso gran premio di Montecarlo – disse – quando andai a finire contro la barriera di gomme perdendo la corsa. Non fu un mio errore, ma una luce accecante che mi paralizzò. Mi resi conto in quel momento che io ero diviso tra il diavolo e Dio. E Dio mi venne incontro facendomi capire che dovevo andare dalla sua parte. Da allora sempre più mi metto in contatto con lui attraverso la preghiera. Qualche mese dopo quell’episodio, Dio mi è anche apparso. Accadde lo stesso anno in Giappone, mentre affrontavo una curva veloce: lo vidi. Alto, immenso, appoggiato su una specie di onda bianca che mi infondeva forza e protezione”. La sorella avrebbe poi raccontato che la mattina dell’incidente aveva aperto la Bibbia, letto un passo a caso. Disse che da Dio avrebbe ricevuto il dono più grande.
Tutto il mondo, marziani esclusi, ammutolì alle 14:17 del 1 maggio di trent’anni fa. Smise di respirare quando vide Senna andar dritto dove non doveva, verso il muretto del Tamburello, frenando da 310 km/h a poco più di 200, con il piantone dello sterzo rotto, e un braccetto della sospensione che nell’impatto buca il casco e lo trafigge. L’autopsia della sua Williams avrebbe confermato che la saldatura del piantone, modificato per rendere l’abitacolo meno insopportabile alla stazza del brasiliano, aveva ceduto. E l’aveva ucciso, come una lancia.
Watkins nel suo libro “Life at the limit. Triumph and tragedy in Formula One” descrisse l’ultimo attimo di vita del campione: “Fece un profondo sospiro. Il suo volto era tranquillo. Sembrava stesse dormendo. E mentre mi trovavo lì a soccorrerlo provai la strana sensazione che la sua anima lo stesse lasciando”.
Lo stesso Sid Watkins che gli aveva suggerito di smettere in tempo, un attimo prima: “Hai vinto tre Mondiali, sei il migliore pilota del mondo. Non hai bisogno di rischiare ancora. Andiamocene via, andiamo a pescare“. Senna quel giorno, prima della gara fece un’altra una cosa che non faceva mai: in attesa dello start si tolse il casco giallo, lo poggiò sul cupolino, sbuffò, scosse la testa. Poi partì. Perché a Watkins aveva risposto “I can’t”. “Non posso”. Oppure “non ci riesco”.
Quel giorno, mentre ai tg scorrevano le corrispondenze dall’ospedale di Bologna aspettando l’annuncio ufficiale, il tempo prese ad andare a due velocità: quella terrena della cronaca, dello stupore, e del lutto mondiale; e quella intima, stavolta lenta, quasi ferma, di Senna. Che aveva cominciato a morire il giorno prima, per mezzo di Ratzenberger: dai box vede il replay dell’incidente; si toglie il casco (di nuovo); sale su una macchina di servizio; si fa portare alla Villeneuve. Per la Fia è vietato, lo multeranno. Due ore dopo va in ospedale, ne esce in lacrime. Era un anticipo, un prequel.
Riccardo Patrese avrebbe dovuto prendere il suo posto: “Proprio a Imola, in quel maledetto weekend del 1994, mi misi a disposizione della Williams per i collaudi: l’auto aveva bisogno di sviluppi. L’idea era di fare coppia con Senna l’anno dopo. Ayrton fu l’ultima persona che salutai nel lasciare l’autodromo: “Ci vediamo al prossimo test”. Poi successe quello che sappiamo. Williams mi offri il posto, io accettai. Ma per una settimana non ci dormii sopra: avevo 40 anni, mi pareva di sfidare il destino”.
Trent’anni dopo quella Formula Uno non esiste più, la tecnologia ha rivoluzionato lo sport e la sua percezione. Ha diluito la poesia, anestetizzando il pericolo e l’annesso potenziale dolore. Le due cose spesso erroneamente vanno di pari passo, in una confusione di emozioni. Quando morì però Senna era già abbondantemente Senna da un pezzo. Lo avevano già raccontato e vivisezionato, non è arrivato a noi, al 2024, come mito postumo. Nel frattempo il tempo ha sedimentato le scorie di quel weekend nero, fino a disinnescarlo nel rito degli anniversari. Ogni 10 anni tondi, tornano quei dettagli, una foto in più, l’intervista sempre più sbiadita ai testimoni dell’epoca. Senna è diventato uno sfondo, sempre presente, vivo nella sua immortalità.