di EMANUELE LAURIA

Il prossimo inquilino di Palazzo Chigi potrebbe essere deciso dalla comunità dei 27 mila italiani residenti in Ecuador o, chissà, dagli appena 1.539 connazionali che secondo l’ultimo e impolverato censimento hanno preso dimora in Nuova Zelanda. Il governo patriottico di Giorgia Meloni potrebbe dare un premio imprevisto alle “colonie” di emigranti che per scelta o per necessità vivono all’estero: un popolo di connazionali fuori dai confini che rischia di diventare determinante nell’elezione del presidente del Consiglio. È una delle distorsioni della riforma del premierato in discussione in Senato, una delle anomalie su cui hanno puntato il dito, a turno, praticamente tutti i costituzionalisti. Gli italiani all’estero sono cinque milioni e oggi possono eleggere 12 parlamentari su 600. Hanno un “diritto di tribuna” limitato alla loro consistenza numerica. Ma il progetto di legge del premierato accresce in modo esponenziale il loro ruolo. Perché trionfa il principio dell’uno vale uno: ogni italiano che abita in terra straniera vale uno che risiede entro le frontiere italiche. Insomma, c’è un tesoretto di cinque milioni di voti che potrà fare la differenza, se si considera che il numero totale degli aventi diritto, alle Politiche, è pari a cinquanta milioni. Si delinea un partito del dieci per cento di emigrati in oltre 200 Paesi, capaci di determinare da soli l’elezione di un premier, far pendere con forza la bilancia su un concorrente o su un altro. Al punto da spingere già alcuni parlamentari a immaginare, per i prossimi candidati alla guida del governo, lunghe trasferte elettorali a caccia del consenso dei siciliani di Buenos Aires o dei veneti a Melbourne. In realtà, si porrebbe anche una questione di trasparenza del voto, visto che all’estero si vota per corrispondenza e si sono moltiplicate negli ultimi anni, le inchieste per brogli. Nella scorsa legislatura un deputato del Pd, Fabio Porta, vinse un ricorso e subentrò in Parlamento a Salvatore Cario, italo-uruguaiano il cui nome venne scritto con la stessa identica calligrafia - e con la medesima mano, secondo i periti del tribunale di Roma – in 300 schede depositate nella sede del consolato di Buenos Aires. E dopo le elezioni del 2022 circa 60 mila consensi della circoscrizione Sudamerica sono stati dichiarati nulli perché espressi su schede false: il cugino truffatore d’oltralpe aveva poca confidenza con l’Italia e aveva fatto stampare sulle schede la dicitura “Camera dei deputadi”… E sì che gli eletti all’estero hanno avuto un peso nella storia parlamentare, anche recente: basti pensare al Maie, che fece da stampella ai traballanti governi Conte ed espresse un sottosegretario, Ricardo Merlo, o alle ambizioni di Sergio De Gregorio, senatore e fondatore del movimento “Italiani nel mondo” che non in modo disinteressato fece cadere Prodi nel 2006, passando da Di Pietro a Berlusconi. È in archivio, ormai, la breve e mirabolante avventura di un altro esponente di Forza Italia, Nicola Di Girolamo, che finì sotto processo per i brogli elettorali compiuti dalla ‘Ndrangheta a Stoccarda al fine di favorirlo, venne “dimissionato” dal Senato e finì in carcere, salvo patteggiare nel 2010 una condanna per riciclaggio e violazione della legge elettorale con aggravante mafiosa. Ora, si badi, la storia delle comunità italiane all’estero è meritevole di massimo rispetto, e da tutelare sono le radici culturali che si nutrono anche di rappresentatività politica. Ma nel percorso della legge del premierato, a detta anche di un costituzionalista eletto in FdI come Marcello Pera, bisogna trovare un modo per dare un riconoscimento giusto ma non eccessivo alla “lobby dei paisà”: “La revisione dell'elezione a suffragio universale e diretto – ha detto Pera nel corso di una seduta della commissione Affari costituzionali - attribuisce chiaramente un peso eccessivo al voto degli Italiani residenti all'estero, in quanto sproporzionato rispetto ai seggi loro spettanti”. Il testo nel frattempo è sbarcato in Aula ma una soluzione non è stata trovata: “O si impedisce ai nostri connazionali all’estero di non votare il premier – ragiona il senatore del Pd Dario Parrini - o si fa in modo che il loro consenso conti di meno. Entrambe le soluzioni le vedo difficili. La verità è che questa norma fa inceppare l’intero meccanismo. È una delle incongruenze che rendono il premierato, in questa forma, anche tecnicamente irrealizzabile”.