di FRANCO MANZITTI
Da due settimane la città di Genova, lanciata verso il futuro di progresso in una spinta rappresentata dal suo blocco di potere, cammina su un crinale molto stretto e rischia di precipitare da una parte e dall’altra di questo sentiero, tracciato dalla clamorosa e inattesa inchiesta giudiziaria
Da una parte c’è il moralismo, scattato come una molla di fronte al corredo fluviale dell’ inchiesta della Procura di Genova, con la valanga delle intercettazioni telefoniche, che escono a capitoli su un giornale e sull’altro.
Questo fiume svela un quadro accusatorio che si fonda prevalentemente su colloqui presentati letteralmente con il ritmo sincopato di telefonate nel linguaggio spregiudicato di oggi (“a quello dovrebbero baciarli il c……”), “drogato” dagli smartphone. Spesso sono poche battute tra i protagonisti dell’inchiesta, finora 35 indagati, di cui uno in carcere (Paolo Emilo Signorini, ex presidente del porto e oggi e ancora per poco ad di IREN), alcuni agli arresti domiciliari (il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, Andrea Cozzani il suo capogabinetto), il grande imprenditore Aldo Spinelli, alcuni interdetti all’ attività professionale e imprenditoriale, come il figlio di Spinelli, Roberto e il presidente dell’Ente Bacini, Mauro Vianello. Un postcomunista diventato uomo chiave tra gli affari e questo rimasuglio di politica.
Altre volte sono lunghi monologhi, infiocchettati appunto da un turpiloquio vagante, che dimostra non solo la qualità degli interlocutori, ma anche la confidenza che intercorreva tra i protagonisti, oramai diventati habituè tra loro. Le intercettazioni sono come una pista sospesa sul vuoto del segreto d’ufficio.
Sono solo quelle le prove contro gli accusati di questo denso intrigo di potere, investigato per anni e anni, mixato tra corruzione per elargire prevalentemente concessioni portuali di pezzi di banchina genovese, che sono un Eldorado di affari, e perfino voti di scambio per ottenere suffragi elettorali a centinaia, a favore di quello o di quell’altro candidato del centro destra?
L’ampiezza dell’inchiesta, il numero di quelli finiti nel mirino, il profilarsi di tanti grandi personaggi sullo sfondo, come Gianluigi Aponte, il “comandante”, già indicato come possibile supertestimone nell’operazione chiave di tutto il processo, la paralisi di potere che ha provocato, spingono l’indignazione e la censura verso gli imputati già dichiarati e gli altri possibili.
Indigna un grumo di potere così “fluido” tra il governatore che va a “buttarsi sulla barca di Spinelli “a mangiare caviale con patate”, in una allusione sessista che trova la sua eco nei regali alle accompagnatrici-fidanzate dello stesso Spinelli per l’imputato più incastrato di tutti, quel Signorini, fino a qualche anno fa oscuro dirigente di Ministeri e Enti locali, assurto al trono di san Giorgio, la presidenza portuale genovese, per grazia ricevuta da Giovanni Toti e questa folla indistinta di genovesi che per lustri oramai lo hanno eletto a loro protettore.
In 650 all’ultimo pranzo di pochi giorni fa, una ultima cena apparecchiata per ricevere l’obolo di almeno 450 euro cadauno, 350 mila euro di incasso in totale, finiti in quel forziere della fondazione Change nella quale gli inquirenti scavano, scavano per trovare la moneta della corruzione.
Possibile che siano solo questo prezzo, gli spiccioli di 55 mila euro dirottati da Spinelli o dall’imprenditore che gestiva la spazzatura, le discariche di Savona? Possibile che il prezzo corruttivo siano quegli altri spiccioli che non sono stati ufficialmente tracciati e che lo stesso sono finiti nel conto personale di Toti?
Troppo poco, ma abbastanza per alimentare lo scandalo di una Regione paralizzata, un vice presidente Alessandro Piana, leghista, che sembra un re travicello, in un consiglio regionale che non sa dove andare a sbattere. Intanto va dritto come se niente fosse e vota a maggioranza 57 milioni di stanziamenti per la SuperDiga, che è la più grande opera pubblica in costruzione in Italia, la salvezza portuale, e non solo, di Genova, che vede emergere il prima cassone proprio in questi giorni, alla presenza del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini e dal suo vice, il genovese Edoardo Rixi.
Rixi tace dal giorno dell’esplosione degli scandali, Salvini si espone contro i giudici: “Toti non ha fatto niente, deve uscire libero subito!“, chiede nello stile provocatorio che gli ha insegnato la sua “Bestia” comunicativa.
Intanto Toti cerca di rispondere alle 180 domande che tre Pm in una volta gli rivolgono a quindici giorni dall’arresto in una caserma, anche simbolicamente quella della Guardia di Finanza in mezzo al porto, a due passi da Palazzo San Giorgio, un altro ente decapitato e che sta per essere super commissariato: il commissario in carica, Paolo Piacenza, è anche lui indagato e nel marasma genovese di questi giorni c’è già un toto presidente, che dovrebbe nominare il ministro delle Infrastrutture Salvini, di concerto con la Regione Liguria o meglio del suo presidente. Che è agli arresti.
Regione decapitata, porto decapitato, il sindaco Marco Bucci che insiste da giorni per essere interrogato come teste, che cammina anche lui su un sentiero stretto, stretto: o teste, oppure indagato, e il “scindeco c’o cria”, come lo chiamano, non è certo uno che starebbe in una posizione incerta.
Quindi ecco che la conclusione moralistica è perentoria: accidenti che scandalo! Quel grumo di potere si è sciolto davanti alle manette della Guardia di Finanza e ora il cascame macchia una regione intera, un porto intero, un sistema di potere oligarchico e anche un po’ volgare, a leggere quei dialoghi sincopati tra i protagonisti, quelle riunioni in barca o in case private o al bar carpiti dalle microspie, dai “trojan” (nomen -omen visto il contorno), a ricostruire quei personaggi come Signorini, dagli stipendi favolosi, ma dai conti correnti a zero euro, che piangono miseria e si fanno pagare dal presunto corruttore perfino il matrimonio della figlia.
E ora a quali miserie, a quale squallore si arriva per prolungare di trent anni la concessione di un terminal che sarà l’Eldorado della Superdiga?
Dall’altra parte del crinale c’è il catastrofismo imperante, che è una capriola perfetta per la Genova incessantemente dipinta dai leader di quel grumo di potere, da quel triumvirato che per sette-otto anni ha dominato la scena Toti-Bucci-Signorini.
Era la regione con maggiore avanzata economica, con il più forte miglioramento turistico, con la più grande scommessa del PNRR, era la città che diventava internazionale finalmente, che cambiava di più la sua pelle con le grandi opere, i tunnel, le superdighe, i treni veloci, i raccordi ferroviari, i piani “salva caruggi”, i giardini rifatti, le foreste di alberi sul cemento e cambiava il suo mood da decrescita felice a ottimismo trascinante, perfino della demografia capovolta: altro che meno abitanti, Genova, una vera calamita per nuovi residenti….. imprenditori, influencer e chi più ne ha più ne metta di neo zeneisi cavalcanti.
Nella capriola catastrofista tutto questo si capovolge e si paralizza, come in una immane e incalcolabile pietrificazione, che lascia le opere in corso al punto in cui stanno in questo momento.
Il tunnel subportuale, che non si scava e rimane nella cartografia progettuale, nei rendering avveniristici, i maxi lavori del water front di Levante diventati una pozzanghera di canali d’acqua e supe residences e Palasport a metà lavori, come nella Sicilia di Gela dell’abusivismo edilizio scatenato e stoppato, in una città di case che sono scheletri vuoti, l’ Hennebique in mezzo al porto che resta il cadavere disteso da decenni, accanto all’incompleta Stazione Marittima.
Appunto catastrofe: un panorama allucinante. Nulla andrà più avanti in un delirio politico di sospensione tra i governati di oggi, stoppati dallo scandali e quelli di domani, che dovrebbero scegliere elezioni anticipate da incubo, nel deserto dei tartari di leadership che non esistono più, non solo a sinistra, dove si sapeva, ma anche nel centro-destra, stroncato dall’inchiesta e dove i ricambi di livello non compaiono.
Mentre Giovanni Toti risponde a 180 domande, preparate dai suoi accusatori, la capriola genovese sembra andare avanti al rallentatore.
Lo stop è giustificato dalle decapitazioni effettive, come quella di Toti e di Piacenza, ma anche dall’isolamento in cui è piombato il sindaco Bucci, abituato a essere quasi “pedinato” ovunque da Toti in una modalità che poteva sembrare eccessiva, ma che garantiva al primo cittadino una copertura politica, non essendo una caratteristica di Bucci quella della sensibilità nei rapporti che spesso sono scontri frontali, dibattiti difficili da comprendere per un uomo del fare, un anti burocrazia come il sindaco genovese.
Questa grande impasse potrebbe protrarsi, ma non troppo e sembra comunque dipendere da due fattori facilmente ricostruibili. Il primo: Toti ottiene, dopo l’interrogatorio, la libertà condizionata e quindi decide sulla sua posizione o di presidente in carica o di presidente dimissionario. Il secondo: Bucci resta un supertestimone o viene indagato.
Il crinale di Genova ha questi due punti di arrivo o di passaggio obbligato. Si può cadere da una parte o dall’altra del crinale, o addirittura rotolare sia nel moralismo e nel catastrofismo insieme. Insomma aspettando i passaggi urgenti della procedura si salvi chi può! Mentre le vecchie profezie sulla maledizione atavica tornano sulla città che generò Cristoforo Colombo, ma non gli diede i mezzi per scoprire l’America. Nei tempi più moderni la città, primogenita di grandi trasformazioni politiche, la rivolta a Tambroni, il primo centro sinistra, ma anche madre del terrorismo brigatista, terra di grandi disastrose alluvioni, prima di ogni altro lembo italiano, la città dove è crollato il Ponte Morandi.
Ma dove l’hanno ricostruito in meno di due anni. Ecco, forse, dove appendersi in quel crinale.