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di ENZO GHIONNI

I toni della questione tra “La Repubblica” ed il premier Meloni si fanno sempre più accesi. Da un lato, il quotidiano diretto da Molinari accusa il Presidente del Consiglio dei Ministri di utilizzare la clava come nei peggiori regimi autoritari contro la libertà di stampa. Dall’altro, il premier sostiene di non poter essere attaccato sul tema dell’identità nazionale delle nostre aziende dal giornale il cui editore ha spostato tutte le attività all’estero. La questione appare complessa, ma in realtà è molto più semplice di quanto appaia. L’autonomia editoriale di un giornale o, meglio, dei suoi giornalisti, non può essere messa in discussione da un esponente politico, ancor più se di primissimo piano. In relazione al fatto specifico, il premier sarebbe dovuto andare nel merito delle accuse riportate dal giornale degli Agnelli. Ossia dire se è vero o no che il Governo sta dismettendo quote rilevanti di aziende strategiche e, se così è, a che condizioni. Ricordare quanto hanno fatto gli altri o rimarcare il pulpito dal quale proviene la predica non è un buon segnale, anzi significa spostare l’attenzione dal punto cruciale. Il problema che emerge, però, quello sostanziale, non è nello scontro tra il Presidente Meloni e “La Repubblica”, ma nell’atavica sofferenza di tutti i governi nei confronti dei giornali. Repubblica è giornale importante, politicamente correttissimo secondo una cerca vulgata, e solo toccarlo significa minare le basi della democrazia. Ma nel corso degli ultimi anni sono innumerevoli i casi in cui, da D’Alema in poi, i giornali sono stati messi in discussione o, addirittura, colpiti in maniera diretta. Nel momento stesso in cui la riforma costituzionale è avvenuta con una rivoluzione, ossia legiferando esclusivamente attraverso la decretazione d’urgenza, il pluralismo è stato, sostanzialmente azzerato. Infatti oggi a fronte di esecutivi che navigano compatti a patto di avere semplicemente una maggioranza in grado di superare i voti di fiducia l’unica risposta è il consueto chiacchiericcio sull’emergenza democratica. Che non è più emergenza, ma realtà, chi vince, con il sistema elettorale che c’è, e, a prescindere dalla maggioranza effettiva del Paese, governa. E lo fa in barba alle minoranze. E visto che le minoranze per vivere, anzi per sopravvivere, hanno bisogno di spazi di discussione, la cosa più semplice è chiudere, o almeno limitare, gli spazi di confronto. Come, tipicamente, i giornali. E nel momento stesso in cui la pubblicità delle aziende di Stato viene gestita con grande disinvoltura, destinando le risorse a chi si vuole e, ancor di più, i contributi pubblici a sostegno del pluralismo vengono decisi sulla base di Regolamenti dell’esecutivo, il gioco è fatto. Ma questo è argomento troppo complesso da affrontare, meglio soffermarsi sulle veline.