Sono passati 17 anni dal giorno in cui quasi per caso riscoprimmo la piu' grande tragedia mineraria italiana, ed ogni anno, da allora politici e amministratori tentano di "mettere il cappello"su questa triste storia dell'emigrazione italiana nel mondo. Come abbiamo scritto allora e ribadiamo oggi il nostro compito é soltanto di "NON DIMENTICARE"....onorando quei poveri resti sepolti in West Virginia... e che solo grazie alla nostra inchiesta - bisogna ricordarlo - hanno ricevuto una giusta sepoltura..... Il 14 novembre del 2003 i sindaci dei comuni italiani dai quali partirono i minatori e un inviato del Vaticano sono venuti con noi nella cittadina, per piantare una croce nel cimitero in memoria di quei morti senza nome. Un viaggio organizzato da Gente d'Italia "per non dimenticare"... Ben vengano quindi le commemorazioni politiche di ogni parte come giusto é stato istituire l'8 agosto di ogni anno il "Giorno del sacrificio italiano nel mondo" , ma non dimentichiamo chi ha riportato alla luce i morti di Monongah ........
DI MIMMO PORPIGLIA
«A proposito di italiani in America... pare ci sia un paese, qui negli Stati Uniti, dove in una sciagura mineraria sarebbero morti più di 500 italiani... Il posto si chiama Mironga, Manonghi, non ricordo...E' una storia incredibile...» mi diceva il collega italoamericano, mentre aspettavamo hamburger e patatine in un piccolo ristorante di Manhattan...
Una storia che, all'inizio, poteva sembrare una leggenda ma che, alla fine, si è rivelata nella sua inimmaginabile tragicità: quel paese dal nome strano esiste davvero, è Monongah in West Virginia, ed anche quei minatori morti ci sono stati davvero. Per arrivare a scoprire questa verità, abbiamo lavorato per mesi. Il collega italoamericano infatti non sapeva dirmi nulla di più. Le sue erano informazioni vaghe, a partire dal nome del paese di questa ipotetica tragedia. Una storia che mi lasciava allibito, una tragedia più grande di quella di Marcinelle in Belgio, eppure non se ne è mai saputo niente.
Così, mentre guidavo in direzione "aeroporto Kennedy" la mia mente era occupata da quei "500 morti italiani". Sentivo di dover verificare quel racconto e così, appena rientrato a Miami ho cominciato a cercare e scavare nel passato, tra mille difficoltà.
Per prima cosa, ho affidato l'incarico di avviare delle ricerche su Internet ai miei redattori: «Uscirete dalla redazione solo dopo che sarete riusciti a trovare qualcosa...» ricordo di aver detto.
E in effetti, dopo sei ore di "navigazione", qualcosa, anche se poco, dalla Rete emerge. Poche righe vengono fuori da Internet utilizzando le parole chiave «miniera – americano – disastro». Si riesce a risalire al nome esatto del paese, Monongah, e a sapere che dista 185 miglia da Washington e che oggi ci abitano circa 445 famiglie, per un totale di 1018 persone distribuite su un'area di 1227 chilometri quadrati. Anche della tragedia c'è qualche traccia in Internet: in 19 righe è racchiusa la morte di 361 emigranti, rimasti sepolti nella miniera, la storia di 250 vedove e oltre 1000 orfani. Quanto basta per decidere di andare fino in fondo. Dopo pochi giorni, quattro cronisti di Gente d'Italia, partono per Monongah.
Il paese è sperduto tra le montagne: non ci arrivano i treni e neppure altri mezzi pubblici di trasporto. "Fa un freddo cane, ma siamo arrivati... Dieci ore di auto da New York...Uno scenario da tregenda...."
Io sistemo alcune cose, poi li raggiungo.
Un viaggio che apparve subito "infinito". Chilometri e chilometri di curve, strade difficilmente percorribili, Neve, vento, poi finalmente l'arrivo in una serata in cui comandava solo la nebbia, in un villaggio, a quindici chilometri da Monongah, dove c'era un albergo. L'unico.
Nella sala bar una cameriera serve ai tavoli. La donna fa un no con la testa.
Consumiamo una cena frugale. Gli altri cronisti, tra cui un operatore TV vanno a risposare. Io resto al bar. E' l'ora in cui uomini e donne arrivano per bere una birra. Uomini in particolare. Con la fatica scolpita sul volto, le braccia muscolose.
Sono minatori.
Ripropongo la domanda ai clienti del bar.
Dice un ragazzone dai capelli neri e lunghi, lo sguardo diffidente, baffetti alla Arsenio Lupin.
Gli spiego che sono un giornalista italiano che ha saputo per caso della tragedia.... Smettono di bere, gli altri. E si avvicinano al bar. Da quel momento comincia il racconto dei minatori. Ognuno ha in famiglia almeno una persona morta in quella sciagura.
Chiedo loro di poter vedere la miniera. Subito. Non importa se è notte. Non importa se nevica. "Ok, andiamo..." Partiamo in nove, con due auto. Trenta e più interminabili minuti, in un silenzio religioso, poi, ci fermiamo in mezzo ad un prato. Alla mia destra una collinetta, nò, è una grotta, un ingresso....
Il luogo è spettrale. I fari illuminano detriti, rami secchi e quel che resta di un edificio completamente abbandonato, sventrato in più punti. Mucchi di suppellettili arrugginite tra neve e terreno, un pezzo di elica, nò, è una ventola enorme attaccata ad un qualcosa che sembra il motore di un aereo. "Una parte dell'impianto di aerazione..." spiega uno dei minatori.
Vorrei entrare nella miniera. "Impossibile...non si può..."
Raffiche di vento gelido coprono un sordo rumore di acque in movimento. Il cielo è nero e nuvoloso. Penso, immagino i minatori mentre entrano in quella specie di spelonca....i bambini....
Quando si scendeva in miniera, a quel tempo, si era accompagnati quasi sempre da un amico e spesso parente "non censito", cioè clandestino, in modo da ottenere un maggiore riconoscimento economico per il maggiore lavoro svolto in compagnia. Allora il diritto a un pezzo di pane si misurava sulla quantità dei pezzi di pietra sventrati. Più picconate, più carbone, più cibo. E per questo i padri si trascinavano i figli minorenni laggiù. E per questo è ragionevole calcolare che i morti siano stati, in realtà, tre volte tanti.
Rientro in albergo quasi in stato confusionale. Penso alla tragedia, ma anche allo "scoop". Mi rendo conto che si tratta di una storia enorme, che verrà certamente ripresa da tutta la stampa, nazionale e internazionale. Dormo poche ore, la mente occupata da menabò e servizi da assegnare, colleghi e scrittori da contattare, storici italiani ed americani da coinvolgere....
Alle sette del mattino siamo già in auto, destinazione Monongah...
Gli altri vanno in comune, a consultare gli archivi, alla redazione del giornale locale. A Monongah non c'è un albergo nè un ristorante, e i treni non passano. Solo vecchie case di legno, ma con il tricolore ai balconi. Le donne con i tratti somatici tipici del nostro Sud... Giriamo senza una meta fissa, cercando un qualcosa che ci faccia arrivare alla miniera abbandonata...E finalmente veniamo "notati" da una pattuglia della Polizia. A destare "sospetto" è la targa che viene da lontano. Spiego agli agenti chi siamo e la natura del nostro viaggio. E loro dopo qualche frase gracchiata alla radio di bordo ci scortano fin davanti al cartello su cui è scritto a caratteri cubitali Monongah.
Un paesaggio da brividi ed un silenzio spettrale. Poche auto, pochissimi negozi, nessun essere umano. Cerchiamo una chiesa, perchè una chiesa dovrà pur esserci nel villaggio.
Eccola, è una vecchia costruzione di legno e mattoni neri, con una grande croce sul tetto, e un prete paffuto e simpatico. Che mi suggerisce di andare subito a parlare con un certo Padre Briggs...
"Lui sa tutto della tragedia...."
Padre Briggs è un uomo piccolo, magrissimo, con gli occhiali. Ci accoglie in una stanzetta di una casa d'accoglienza per anziani da lui realizzata. E a bruciapelo mi dice:
Ritorno alla miniera abbandonata. Macerie, soltanto macerie, il grande buco nero intravisto con i minatori, la sera precedente, pezzoni di ferro arruginito, forse putrelle che servivano a reggere il soffitto dei cunicoli, scaraventati fuori dai corridoi dall'esplosione rimasti nell'erba come in quel giorno lontano. Quel 6 dicembre 1907.
Il tempo si è fermato in quel luogo. E Monongah si è fermata con quella esplosione.
Tornando in albergo la sala è affollata di gente. Sono minatori, con le loro famiglie. Almeno una sessantina di persone.
Un sindacalista prende la parola. .
Quella gente condannata alla rimozione chiede un riconoscimento, e non avendo più giustizia da rivendicare, chiede il riscatto di quelle radici italiane che sono nel sangue della gente di Monongah.
Seguito da quella carovana che chiede solo pietà per quei morti, vado dal sindaco, una donna di origini lucane che ha perso il padre in quello sciagurato 6 dicembre 1907.
"Scrivi, scrivi, fai in modo che questa sciagura tutta italiana torni alla memoria...Coinvolgi i politici, che vangano a sistemate i nostri morti..."
Una promessa grossa. Una promessa di un italiano che in quel momento si unisce al dolore della sua gente. Quella gente che era partita senza mai fare ritorno.
Padre Brigs aspetta l'equipe per condurci al cimitero.
"I morti sarebbero stati un migliaio, 960 per la precisione, prevalentemente italiani, e poi polacchi, turchi, irlandesi. .."- giura –
Ma dove stavano i cadaveri, dove le lapidi?
Il cimitero di Monongah è un pezzo di terra su una piccola collina circondata da vecchie case. Con qualche lapide.
"Sono sepolti qui, tutti qui, è un immenso ossario...Perché oltre ai nomi di quelli conosciuti –spiega Padre Briggs – ci sono chissà quanti cadaveri di ragazzi..."
Ma saranno venuti parenti, amici....
"Sì, ogni tanto viene qualcuno, c'è anche qualche lapide ma qui sotto sono sepolti i cadaveri di tanti uomini e bambini senza nome perché erano intere famiglie che lavoravano in miniera, e venivano pagate in base alla quantità di carbone estratto>.
Un'enorme fossa comune. E qualche rara lapide deposta dalle famiglie. Con un grande albero che veglia.
La valle della morte di Monongah oggi è circondata da case. Vita e morte si mescolano nel silenzio e nell'isolamento di Monongah.. Padre Briggs mi fa vedere una montagna di carbone.
La solitudine, la desolazione delle donne di Monongah sono il simbolo di quella sciagura, fatta di esseri umani che nulla avevano da perdere, e che in terra straniera avevano perduto l'unico motivo di vita: gli affetti.
Intanto la gente del villaggio, come in un pellegrinaggio, continua a raggiungere l'albergo. Consegnandomi in prestito cio' che possiedono di quella storia, di quel dolore collettivo, che si continua a respirare in quel lembo di West Virginia, dove la nebbia, il freddo, la desolazione, erano nel volto di quella donna, Caterina Davia, che spalando carbone non aveva più lacrime. Perché a Monongah è stato negato anche il diritto di piangere.
Intanto comincia una ricerca frenetica. I cronisti e gli inviati di Gente d'Italia consultano archivi, giornali dell'epoca, e le indagini si spingono fino a Washington e Philadelphia. Si mettono insieme i pezzi del puzzle e la storia tragica di Monongah inizia a mostrare contorni più chiari. La mattina del 6 dicembre 1907, giorno di San Nicola, 478 minatori e 100 uomini addetti ad attività accessorie entrano nei pozzi 6 e 8 della miniera di carbone. Dopo l'esplosione, si parla di 361 morti e nessun superstite ma le ipotesi sul reale numero delle vittime, in assenza di riscontri certi, sono legate allo studio dei cimiteri locali: il numero dei deceduti arriverebbe così a 500, anche se un addetto alle sepolture, negli anni 50 si diceva convinto che i morti fossero 620. Ma non è ancora il bilancio finale: secondo una corrispondenza da Washington, datata 9 marzo 1908, i morti sarebbero stati 956. Si tratta della «più grande sciagura della storia mineraria statunitense».
I morti italiani ufficialmente sono 171, ma in realtà sarebbero molti di più, La maggior parte era originaria della Campania, del Molise e della Calabria. Man mano che i fatti emergevano diventava sempre più appassionante il tentativo di risalire ai nomi e alle origini dei minatori italiani.
Secondo il Monongah Mines Relief Committee, di nazionalità americana, con le 362 vittime ufficiali, tra le quali molte di colore, polacche, turche, slave o russe, ungheresi, irlandesi, lituane, scozzesi, si rinvengono 171 italiani provenienti dal Molise, Puglia, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Campania, Veneto. E un piemontese, originario di San Rocco di Premia: Vittore d'Andrea. Una parte dei corpi recuperati riposano sulla collinetta del cimitero di Monongah. Dimenticati per quasi un secolo, a Muh-nahn-guh,che nella lingua degli indiani Seneca significa «fiume dalle acque ondulate». Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie, in bianconero o in un tenero seppia, scattate da fotografi che, immediatamente, le trasformarono in cartoline molto richieste che invasero l'America del disinganno.
Della tragedia è rimasto anche qualche lontano ricordo, se non nella memoria delle persone nei detti popolari. A S. Giovanni in Fiore ad esempio, da dove provenivano numerosi minatori, per dire che non si ha intenzione di far perdere le proprie tracce, il detto è, non a caso, "non vado mica a Milonga", con un chiaro riferimento al paese della tragedia statunitense- Oltre 90 anni per riportare a galla una tragedia di immane proporzioni. Un disastro causato dai proprietari della miniera, La Fairmont Coal Company, che non avevano attivato l'impianto di aerazione, c'era dunque tutto l'interesse ad insabbiare l'accaduto . Il tempo dell'oblio per le vittime di Monongah sta però per scadere. Il 14 novembre del 2003, i sindaci dei comuni italiani dai quali partirono i minatori e un inviato del Vaticano sono venuti con noi nella cittadina, per piantare una croce nel cimitero in memoria di quei morti senza nome. Un viaggio organizzato da Gente d'Italia "per non dimenticare"...
E qui mi corre l'obbligo di ringraziare le tre persone che hanno avuto un peso determinante nel far conoscere al mondo la tragedia di Monongah: il senatore Mario Baccini, sottosegretario agli esteri del governo di allora, l'ambasciatore Sergio Vento capo della nostra diplomazia negli Usa ed il collega Paolo Peluffo direttore del Dipartimento per l'informazione e l'editoria, a quel tempo portavoce del presidente della repubblica Ciampi e capo dell'ufficio stampa del Quirinale.
Fu grazie ai loro buoni uffici che riuscimmo ad organizzare l'incontro verità su Monongah, che stava "saltando" perché poche ore prima, a Nassiriya, 12 carabinieri, 4 soldati e numerosi civili persero la vita per un attacco kamikaze contro la nostra postazione.
Ciampi rimase profondamente colpito dalla sciagura. "La strage di Monongah non resterà più un capitolo dimenticato – disse – . Anzi, essa è da ora entrata a pieno titolo nella storia grazie al lavoro e all'abnegazione dei giornalisti di Gente d'Italia. E' commuovente sapere che il 14 novembre, a Monongah, con le vostre manifestazioni avete commemorato quei nostri concittadini... »".
Da quel 14 novembre del 2003 è cominciata un'altra e più difficile ricerca nella quale abbiamo coinvolto Pietro Mariano Benni, Arianna di Giorgio, Mimmo Carratelli, Federico Guiglia, Bruno Tucci, Giorgio Torchia, Massimiliano Massimi, Giancarlo Gambalonga, Caterina Pasqualigo, Graziella Cava, Federica Manzitti, Stefania Nardini, Ciro Paglia, e una lunga serie di collaboratori in loco. Sono andati in giro per l'Italia, nei paesi dai quali partirono i minatori di Monongah.
Ed hanno scritto pagine, pagine, e pagine. Storie amare di contadini sradicati dalla terra, poveri, in gran parte uomini e adulti, spinti dalle più rosee speranze e sollecitati dal racconto, tante volte ascoltato, della fortuna che si erano costruiti in America tanti altri stranieri sbarcati nella più squallida miseria. Storie di lunghe traversate – dal 1880 era tramontata l'era della navigazione a vela ed era cominciata l'epoca dei grandi bastimenti a vapore- così come venivano raccontate nelle rare lettere spedite dal sacerdote di turno. Viaggi che duravano in media quattordici giorni. L'imbarco, i passeggeri che venivano lavati con un bagno disinfettante, i loro bagagli disinfestati che dovevano passare una prima visita medica. Per molti italiani il viaggio verso le Americhe era anche il loro primo contatto con il mare. E le tempeste ed il mal di mare aggravavano per molti le condizioni del viaggio.
Storie alle quali tutti noi stiamo ancora lavorando, affinchè le inchieste e le ricostruzioni promosse dai giornalisti di Gente d'Italia rimettano anche i numeri, oltre che i nomi, al loro posto tenero e agghiacciante. Stiamo lavorando con Susy Leonardis, instancabile, tenace napoletana del New Jersey, la vera ispiratrice della riscoperta di Monongah. Fu lei a parlarne al collega italo-americano che non aveva capito l'entità della tragedia. Fu lei a condurci dal professor Salvati, figlio di uno dei minatori periti nello scoppio.
Stiamo lavorando con Joseph Tropea, il professore emerito della George Washington University, che continua la sua ricerca dei parenti delle vittime, cominciata trent'anni fa in Italia e negli Usa. E' soprattutto merito suo se siamo riusciti a contattare in Italia, figli e nipoti di quei poveri disgraziati. Ed è merito di tutti gli abitanti di Monongah che ci sono stati vicino fin dal primo giorno e che ci hanno aiutato mettendoci a disposizione documenti, foto, libri, se questa triste storia è ritornata alla luce. Merito di quel grande sacerdote che è stato Padre Briggs, di Janet Salvati, la professoressa e del cugino medico, di tanti e tanti altri di cui non ricordo il nome ma i cui volti sono stampati nella mia mente....
Ringrazio prima di tutto il Presidente Ciampi che volle premiarci, poi il governatore Jo Mancin per avere concesso la cittadinanza onoraria dello Stato al sottoscritto e a tutti i giornalisti di Gente d'Italia che hanno lavorato e stanno ancora lavorando per la riscoperta di questa immane tragedia. Ringrazio il Consiglio Comunale di Canistro per avermi concesso la cittadinanza onoraria e ringrazio il vice ministro degli esteri, con delega per gli italiani nel mondo di allora, Franco Danieli, per aver promesso e poi attuato, senza esitazione, di onorare in nome dello Stato Italiano quei poveri resti di Monongah,diventata ora un simbolo. Finalmente. Ma ringrazio soprattutto i miei colleghi che hanno creduto fin dal primo momento in questa "battaglia" per far ritornare alla luce questo tombale olocausto.
Adesso, il ricordo del 6 dicembre si tinge soprattutto di futuro: che fare come lasciare scolpito il senso di quell'esilio di cui s'era persa ogni traccia in che modo raccontare ai ragazzi di domani che tanti ragazzi di ieri hanno pagato con la vita il prezzo della loro debolezza: senza patria e senza lingua, né italiana né inglese, ché solo il dialetto parlavano. Privi di protezione legale e sindacale, esposti al freddo, all'umiliazione, alla disperazione. Non è stato bello, emigrare. Non è stato generoso, coi giusti, il carbone rosso di Monongah. Rosso di sangue, la sola cosa che ha finito per accomunarli tutti, e che il tempo -saggio- non è capace di dimenticare..." Ma non ci fu solo Monongah. Il dicembre 1907 fu il mese delle stragi minerarie per gli Stati Uniti, un mese che si concluse con un bilancio terribile: 3000 minatori morti. Si ignora quante furono le vittime italiane. Non è neppure possibile conoscere il loro numero nelle tragedie degli anni successivi, come quella del 13 dicembre 1909 nella miniera Cherry in Illinois, in cui, tra gli altri, "Frank Samerania, Quartaroli Antenore, Fred Lauzi, Salvatore Piggatti, John Piggatti, e Bonfiglio Ruggeri si salvarono dopo essere rimasti intrappolati con altri per otto giorni nella miniera arroventata da scoppi e incendi". Alle tragedie si aggiunsero spesso discriminazioni. Un esempio: a seguito di un'esplosione in una miniera di Black Diamond, in California, vi furono molte vittime americane e straniere, tra cui quattro italiani. Alle famiglie degli americani furono assegnati 1.200 dollari di risarcimento; agli italiani solo 150.