Gente d'Italia

“Netanyahu vieni pure, non ti arrestiamo”: da Orbàn (e Salvini) agli USA, il fronte del “no” al mandato di arresto

Benjamin Netanyahu

di ALESSANDRA FABBRETTI e LUCIO VALENTINI

ROMA – Scuote la testa il vicepremier e ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, quando i cronisti lo interpellano sulle variegate posizioni del Governo sulla decisione della Corte penale internazionale sul premier israeliano Benjamin Netanyahu, in particolare quando gli ricordano la posizione del ministro della Difesa Guido Crosetto, che riterrebbe giusto arrestare Netanyahu se mettesse piede in Italia: “Io conto di incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto”, risponde ai cronisti a margine dell’assemblea Anci di Torino.

Adesso, i criminali di guerra sono altri”, continua Salvini, “non entro nel merito delle dinamiche internazionali. Israele è sotto attacco da decenni, i cittadini israeliani vivono con l’incubo dei missili e coi bunker sotto le case da decenni, adesso dire che il criminale di guerra da arrestare è il premier di una delle poche democrazie che ci sono in medio oriente mi sembra irrispettoso”, prosegue il vicepremier, “pericoloso, perché Israele non difende solo se stesso ma difende anche le libertà e i valori dell’Occidente. Mi sembra evidente che sia una scelta politica dettata da alcuni paesi islamici che sono maggioranza in alcune istituzioni internazionali”.

COME ORBAN

E’ la linea di pensiero che lo accomuna a Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese ha dichiarato che inviterà Netanyahu a visitare il suo Paese, in spregio al mandato di arresto della CPI “per crimini contro l’umanità e crimini di guerra”.

Nella sua intervista settimanale alla radio di Stato, Orbán ha definito la decisione della CPI “oltraggiosamente sfacciata” e “cinica”, affermando che “interviene in un conflitto in corso… mascherato da decisione legale, ma in realtà per scopi politici”. “Non c’è scelta qui, dobbiamo sfidare questa decisione“, ha detto Orbán.

L’Ungheria ha firmato lo Statuto di Roma, il trattato internazionale che ha creato la Corte Penale Internazionale, nel 1999 e lo ha ratificato due anni dopo durante il primo mandato di Orban. Tuttavia, Budapest non ha promulgato la convenzione associata per motivi di costituzionalità e pertanto afferma di non essere obbligata a conformarsi alle decisioni della CPI. “Inviterò il Primo Ministro israeliano, il signor Netanyahu, a visitare l’Ungheria, dove gli garantirò, se verrà, che la sentenza della Corte penale internazionale non avrà effetto in Ungheria e che non ne rispetteremo i termini“.

Netanyahu lo ha ringraziato per la sua dimostrazione di “chiarezza morale”. “Di fronte alla vergognosa debolezza di coloro che hanno sostenuto la scandalosa decisione contro il diritto dello Stato di Israele a difendersi, l’Ungheria” è “al fianco della giustizia e della verità”, ha affermato Netanyahu in una dichiarazione.

NETANYAHU SPACCA IL MONDO

Ma l’Ungheria e l’Italia non sono certo gli unici e i primi Paesi a prendere posizione sul mandato. Svariate le reazioni dei leader di governo, tra chi riconosce la decisione del tribunale internazionale e chi invece ne contesta la legittimità. Tra gli ultimi a esprimersi, la Cina, attraverso il portavoce del ministero degli Affari esteri Lin Jian, che ha detto: “La Cina spera che la Corte penale internazionale mantenga una posizione obiettiva e giusta ed eserciti i suoi poteri in conformità con la legge“. Il gigante asiatico, insieme ad altri paesi come Stati Uniti, Russia, Ucraina, India e Sudan non sono membri della Cpi. Ma gli altri 124 che ne sono parte sono vincolati a far scattare le manette nel caso in cui Netanyahu e Gallant entrino nei loro confini nazionali.

Dalla Russia nessun commento, dal momento che lo stesso Vladimir Putin è a sua volta colpito da un mandato d’arresto della Cpi per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel contesto del conflitto della guerra in Ucraina.

Quanto agli Stati Uniti, invece, il presidente americano Joe Biden ha reagito definendo “scandalosa” la decisione della Corte dell’Aia, sostenendo che “non c’è equivalenza tra Israele e Hamas”, in riferimento al mandato d’arresto che la Cpi ha spiccato anche contro il comandante dell’ala militare del gruppo, Mohammed Deif. “Saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza” ha ribadito il presidente uscente. Il suo successore Donald Trump, tramite il suo futuro consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, ha fatto sapere che “ci sarà una risposta” da parte di Washington contro la Cpi, non appena inizierà il mandato alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio. Trump già aveva imposto sanzioni contro il tribunale internazionale all’epoca del suo primo mandato, quando la procuratrice capo della Cpi, Fatou Bensouda, annunciò di voler indagare per crimini commessi da funzionari statunitensi nei vent’anni di presenza militare in Afghanistan.

In Europa, il primo a esprimersi è stato l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue Josep Borrell: chiarendo che la decisione della Corte “non è una decisione politica”, bensì “di una corte di giustizia internazionale. E la decisione della Corte deve essere rispettata e implementata”, ha ricordato che “tutti gli stati membri dell’Ue sono vincolati a rispettarla”. In questi tredici mesi di operazione militare e crisi umanitaria, Borrell ha proposto varie volte sanzioni contro Israele, fino a chiedere di interrompere la cooperazione politica con Tel Aviv.

Francia e Germania prendono tempo: “Stiamo ovviamente esaminando esattamente cosa ciò significhi per la sua implementazione in Germania”, ha detto ai cronisti Annalena Baerbock, ministra degli Esteri tedesca, mentre dal ministero degli Esteri di Parigi, partendo dal riconoscimento che la sentenza “è in linea con gli statuti della Corte”, non chiariscono se la decisione sarà applicata.

Il governo olandese ieri ha subito preso posizione tramite il capo della Diplomazia Caspar Veldkamp, affermando che l’Olanda “è pronta a dare esecuzione a tutti e tre i mandati d’arresto“. “Restiamo sempre dalla parte della giustizia e del diritto internazionale”, ha detto anche il vicepresidente della Spagna Yolando Diaz, aggiungendo: “Il genocidio del popolo palestinese non può restare impunito”.

“La responsabilità di implementare i mandati di arresto della Corte dell’Aia compete ai singoli Stati”, hanno ribadito dal ministero degli Esteri del Belgio, Paese che con Madrid ha accolto positivamente la notizia, insieme all’Irlanda: “Certo che arresteremo Netanyahu” ha risposto ai giornalisti il premier Simon Harris. Questi tre paesi si sono dimostrati tra le voci più critiche in Ue dell’azione di Israele nei Territori palestinesi occupati e hanno ripetutamente chiesto il cessate il fuoco e sostenuto, anche legalmente, l’accusa di genocidio che il governo del Sudafrica ha mosso contro Israele, denunciandolo al secondo tribuanale internazionale dell’Onu: la Corte di giustizia internazionale (Icj).

Pertanto, anche il Sudafrica ha accolto con favore la mossa della Corte che, accusando Netanyahu e Gallant di omicidio, attacchi intenzionalmente diretti contro i civili, crimine di affamamento e altri disumani – tra cui il blocco agli aiuti umanitari e alle forniture mediche – vede rafforzata la sua causa all’Icj. Il governo di Pretoria subì forti pressioni da parte dei paesi occidentali quando, nell’ambito del vertice dei Brics dell’estate 2023, invitò il presidente Putin garantendogli “immunità”. Alla fine, il capo del Cremlino rinunciò al viaggio, intervenendo in video collegamento da Mosca. Gli Stati Uniti sostennero con energia anche il mandato d’arresto che colpi l’ex presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir, esortando le stesse autorità sudanesi a consegnare il generale ai giudici dell’Aia.

Restando ancora fuori dal perimetro dei Paesi Ue, il presidente argentino Javier Milei ha espresso “profondo disaccordo”, il governo del premier britannico Keir Starmer ha invece assicurato che darà esecuzione al mandato d’arresto della Cpi nel pieno rispetto del diritto internazionale, così come hanno affermato anche il premier del Canada Justin Trudeau e la ministra degli Esteri dell’Australia Penny Wong.

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