Gente d'Italia

Il benedetto pasquale napoletano, i fiori d’arancio e la benedizione che attraversa generazioni

Napoli (Depositphotos)

di MARIA ROSARIA BARBATO

Quando ero bambina, aspettavo il giorno di Pasqua con impazienza. Nella mia famiglia – allegra, rumorosa, profondamente napoletana – la Pasqua è sempre stata una grande festa.

In Campania, la regione di Napoli, la Pasqua non si celebra solo in chiesa, ma invade le strade, entra nelle case, profuma le cucine, si appende ai muri e alle porte sotto forma di palma benedetta.

Nella mia famiglia, come in tante altre famiglie napoletane, questo tempo è fatto di rituali antichi.
E ogni gesto, ogni piatto, ogni profumo, custodisce una storia che resiste al tempo.

Quando penso alla Pasqua, penso subito a Ottaviano, la città dove sono cresciuta, ai piedi del Vesuvio.
Piccola, forse invisibile agli occhi di molti, ma per me traboccante di vita, di ricordi, di nomi e di profumi che non svaniscono mai.

Lì, la tradizione non era solo qualcosa da ripetere: era qualcosa che ci plasmava, che si insinuava nella pelle come un profumo antico, di quelli che restano anche quando sembrano svaniti.
Ancora oggi, quando ritorno in quei luoghi, il cuore accelera i battiti. È come se i ciottoli del marciapiede mi chiamassero per nome.

La celebrazione comincia la Domenica delle Palme, con la tradizione dei ramoscelli di ulivo
Vengono portati a messa per essere benedetti, poi conservati con cura in cucina o dietro la porta d’ingresso, come simbolo di protezione, di pace, di un nuovo inizio.
Ricordo che, per chi dimenticava di portare i propri rami, il parroco della Chiesa di San Francesco – all’epoca il caro Don Pasquale – lasciava un cesto pieno all’ingresso.
Perché, nella tradizione napoletana, nessuno deve restare escluso.

La Settimana Santa segue i suoi ritmi propri.

Il Giovedì Santo, intere famiglie si dedicano al tradizionale struscio, una passeggiata tranquilla tra le chiese della città per visitare i Sepolcri, altari allestiti per custodire il Santissimo Sacramento, decorati con fiori, candele e simboli della Passione, secondo l’antico rito delle “sette chiese” (o a volte tre).

Più che un pellegrinaggio, lo struscio era un’occasione di ritrovo tra vicini, parenti lontani, nostalgie condivise.
Per me e le mie amiche – come credo per molti – era anche un’occasione rara per incontrare coetanei al di fuori dei soliti giri.
Si scambiavano sguardi, sorrisi timidi, bisbigli, e anche qualche pettegolezzo, tra una chiesa e l’altra.

Nello stesso giorno, la tradizione napoletana prevede la preparazione delle impepata di cozze, cozze piccanti con pepe, pomodoro e pane imbevuto. Si racconta che perfino Ferdinando I di Borbone, buongustaio incallito, si sia lasciato conquistare da questa ricetta, trovando così un modo saporito e piacevole per rispettare la tradizione.

Il Venerdì Santo era un giorno di rigorosa astinenza: niente carne. Solo pesce, piatti leggeri o persino il digiuno . Era un tempo di raccoglimento e di memoria e, a volte, di penitenza. Un po’ per fede, un po’ per tradizione, un po’ per prepararsi alla grande abbuffata della domenica.

Il Sabato Santo, le cucine si svegliano all’alba. Tutto è già in fermento: casatiello, tortano, pastiera. È un giorno di lievitazioni, di profumo di fiori d’arancio e di mani operose. Un giorno di cura, di silenzio, di attesa

Il casatiello, protagonista indiscusso della Domenica di Pasqua, ha origini molto antiche, forse risalenti ai primi cristiani napoletani. L’impasto, arricchito con strutto, è farcito con salumi e formaggi, e decorato con uova intere — ancora con il guscio — incastonate con croci di pasta, simbolo della croce e della resurrezione.

Il tortano gli somiglia, ma le uova sono nascoste all’interno, mescolate all’impasto. Dicono che il casatielloonori il sacro, mentre il tortano celebri il profano.

La pastiera, regina dei dolci, è nata in un convento: si racconta che furono le suore di San Gregorio Armeno a crearla, mescolando grano, ricotta, acqua di fiori d’arancio e il tempo lento dell’attesa.

Un’altra leggenda narra che fu preparata per la prima volta da Partenope, la sirena mitica che, secondo la tradizione, fondò Napoli. Ogni primavera, Partenope emergeva dalle acque del Golfo per offrire i suoi canti agli abitanti della città. E per ringraziarla, sette delle più belle fanciulle dei villaggi vicini le donarono sette doni: farina, ricotta, uova, grano, acqua di fiori d’arancio, spezie e zucchero — gli stessi ingredienti che, mescolati insieme, diedero vita alla celebre torta.

Esistono moltissime varianti della pastiera. Ogni madre, ogni nonna — e oggi anche padri e nonni cuochi — custodisce il proprio segreto. La base è sempre la stessa, ma è nella variazione che si esprime l’identità. E tutte, con le loro piccole differenze, fanno parte del grande patrimonio partenopeo.

La pastiera, più che un dolce, è una poesia di pazienza e di fede.

Nella tradizione napoletana più autentica, preparare la pastiera può richiedere anche due settimane.

Per chi la fa ancora come un tempo, con il grano crudo, tutto inizia molti giorni prima: il grano viene lavato e lasciato in ammollo per 3-5 giorni, poi cotto lentamente per 1-2 giorni, fino a diventare cremoso e profumato.

La ricotta viene mescolata allo zucchero e lasciata riposare in frigorifero per 2-3 giorni, per assorbirne i sapori e perdere il siero in eccesso.

La pasta frolla, preparata con burro o strutto, riposa anch’essa per 1-2 giorni, per prendere struttura e profumo.

E dopo la cottura... nessun assaggio.
La pastiera deve riposare ancora 2-3 giorni, affinché gli ingredienti si abbraccino, i profumi si armonizzino e il sapore raggiunga la sua piena maturazione.

Si dice che il momento perfetto per gustarla sia tra il quarto e il quinto giorno dopo la cottura.

Come mi è capitato di sentire una volta:
“La pastiera non si fa. Matura.”

Nella pastiera é insito un tempo di gestazione, di nascita, di arricchimento.
Come la memoria. Come la tradizione.
Non vive in un gesto solo, ma nel tempo che le si concede perché tutto diventi vero.

Sono un’ottima cuoca nei rari momenti in cui ho tempo, ma non ho mai preparato una pastiera. Non l’ho mai fatta: l’ho sempre e solo mangiata. Le pastiere sono sempre arrivate a me dalle mani delle donne della mia vita. Mani che conoscevano il punto giusto del grano, la misura esatta del fiore d’arancio, e quel riposo prezioso che serve perché un dolce riveli davvero la sua anima. Forse è per questo che mi parla così profondamente di eredità. Delle mani femminili. Delle pause che la vita ci chiede per essere gustata fino in fondo. Anzi — se qualcuno ha preparato una pastiera oggi — ne metta da parte una fettina per me. Solo per addolcire la nostalgia… e per sentire — anche da lontano — il sapore di casa.

La Domenica di Pasqua è giorno di famiglia. Ma c’è spazio anche per gli amici, che si ritrovano nel tardo pomeriggio per un caffè al bar del paese vicino o, più spesso, il lunedì successivo: la Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo, che è ancora festivo. È il giorno della classica scampagnata, il picnic con amici e amiche, la fuga nei campi, al mare, nel verde. Si condividono gli avanzi della Pasqua: pane, vino, fave fresche, carcioffole arrustute e la tradizionale menesta ’mmaretata napoletana, fatta di verdure e carni. Oppure, come facciamo a casa nostra, reinventiamo la tradizione con tortellini e menesta. Un piatto che dovrebbe essere legger per compensare i bagordi del giorno prima. Perché anche la tradizione sa essere leggera.

Ma è la Domenica di Pasqua che tutto si rivela. A casa mia, come in tante altre, il pranzo comincia con il rituale del Benedetto Pasquale, in dialetto napoletano ’o Beneditt’. Il Beneditt’ è l’antipasto benedetto composto da uovo sodo, simbolo universale della vita che rinasce; salame e soppressata, che segnano la fine della privazione e il ritorno all’abbondanza; ricotta salata, simbolo di purezza; pane, memoria del corpo di Cristo; e c’è chi aggiunge il tocco agrumato di un’arancia o di un limone, per ricordare che la primavera è tornata. A casa nostra bastava l’essenziale: uovo, salame e ricotta salata.

A Pasqua, di solito, arrivavano i cugini e le cugine da Capua, una cittadina vicino a Caserta, e la casa si riempiva di voci, risate, profumi e musica. Ma gli zii vicini di casa, arrivavano talvolta con un vassoio più ricco, la fellata napoletana, e lo posavano sul tavolo come si deposita un antico tesoro. A volte si aggiungevano carciofi, provolone, olive. Ma ciò che univa tutto, prima ancora di prendere la forchetta, era la condivisione della benedizione domestica.

Nella tradizione, ancora segnata da un’impronta patriarcale, il capofamiglia era colui che impartiva la benedizione, di solito il padre o il nonno. Ma, rompendo gli schemi, nella mia famiglia era anche mia nonna a compiere il rito, con quell’autorità silenziosa che solo lei possedeva. Nella casa piena di parenti, ciascuno, attorno alla tavola, benediceva i membri del proprio nucleo familiare con il segno della croce tracciato con il ramoscello di ulivo e l’acqua benedetta portate dalla messa. Poi si passava in ogni stanza della casa, disegnando il segno della croce sulla porta di ciascuna. Dopo, si guardava verso la montagna, verso il Vesuvio, la strada, il cielo e si benediceva anche ciò che era lontano. Era una benedizione senza confini, come un soffio di protezione lanciato sul mondo.

È una tradizione che si respira e si incarna semplicemente perché le si appartiene. Un’appartenenza che non si impara né si conquista. Si vive. Perché si è.

Poi il casatiello e il tortano prendevano il posto d’onore, accanto al Beneditt’. E subito dopo, a casa mia, si attendeva con impazienza il momento dei bucatini alla chitarra, una pasta lunga cotta al forno, ripiena di ragù, piccole polpettine, fette di melanzane e provola affumicatache si scioglieva al centro. Mi pare ancora di sentirne il profumo.

E infine, come vuole la tradizione napoletana, l’agnello arrosto, simbolo della Pasqua cristiana, servito con patate e piselli. Non piaceva proprio a tutti.  Ma non è il piatto che conta, ma ciò che porta con sé. La carne era meno importante del rito, perché lì, tutto aveva il sapore di ciò che viene tramandato, non solo servito.

E il dolce, ovviamente, era la pastiera.

Nonna viveva con noi, e per questo, nel pomeriggio, casa si riempiva di figli, cugini, nipoti.  Non solo per stare con lei e per ritrovarsi, ma anche, ovviamente, per provare la pastiera di casa nolstra. Per sedersi vicini, scambiarsi parole e sorrisi, riempiendosi la bocca di dolcezze, di risate, e magari anche di un limoncello fatto in casa.

Ogni arrivo era una festa. Ogni ritrovo, un rito. La tavola si allungava, il tempo si dilatava, ed era come se il mondo intero potesse entrare in salotto. Era come se il tempo si fermasse per ricordarci chi eravamo, insieme.

Oggi, rinnovando la tradizione, mio padre mi ha fatto una videochiamata. All’ora esatta del rito. Dall’altro lato della linea, lo stesso suono di sempre: la palma benedetta, l’acqua santa, il Beneditt’ disposto sulla tavola, il testo della benedizione e le nostre preghiere.

Senza mia nonna, è vero, la famiglia, pur unita dall’affetto, non si riunisce più così numerosa. Il tempo cambia molte cose, come le presenze e le assenze. Ma in un certo senso, la nostra famiglia si è arricchita nella linea discendente. Oggi, la nuova generazione è lì. E il gesto continua. Forse meno formale. Ma non meno sacro.

Chi benedice, come negli anni della mia infanzia, è mio padre, Renato. La novità è che, ora, a ricevere la benedizione con noi, c’è il piccolo Renato, con i suoi cinque mesi e la sua prima Pasqua. Una gioia immensa. Un’emozione difficile da descrivere.

Due Re-nati, sotto lo stesso tetto, nel giorno della Rinascita. Il nonno che tramanda; il nipote che accoglie. Non parla ancora, ma già porta in sé il senso di appartenenza. Perché ci sono eredità che si radicano prima ancora di essere comprese. Un gesto antico che si rinnova, un ciclo che si apre. E un amore silenzioso che attraversale generazioni

Oggi, la nostalgia è una stretta profonda al cuore. E so che questo sentimento non è solo mio, né solo di adesso. Viene da lontano. É passato, presente e sarà futuro. È ciò che pulsa nel sangue di tutti coloro che sono partiti. E ancora più forte in chi non è mai più tornato.

Nel sangue di chi non è mai stato in Italia, ma ha ascoltato la sua storia dalla voce dei bisnonni, dei nonni, dei genitori, o l’ha scoperta da solo/a, leggendo, studiando, sentendo.

È vivo in tutti coloro che hanno ereditato, anche senza saperlo, l’italianità sparsa per il mondo e che nell´integrazione si trasforma in italicità. Nei figli, nipoti e pronipoti di chi ha attraversato oceani, scalato montagne e lasciato il cuore alle spalle, in Italia. Persone che portavano con sé solo un nome, un piatto, una foto nella borsa e una grande nostalgia cucitasulla pelle.

E in tanti che oggi vedono le proprie radici minacciate dall’oblio imposto ufficialmente dal governo italiano guidato da Giorgia Meloni, che tenta di riscrivere la storia della diaspora italiana, restringendo, con un decreto, il diritto alla cittadinanza a milioni di discendenti. Come se si potesse cancellare un’identità costruita attraverso le generazioni, fatta di memorie, affetti e appartenenza, con il semplice gesto burocratico di una penna.

L’identità non ha bisogno di atti ufficiale per esistere. Ma l’essere umano ha bisogno di riconoscimento. Di accoglienza, di un nome, di un posto nel mondo. Sapere da dove si viene non basta, perchè è il riconoscimento che conferisce dignità alla memoria e ne preserva la continuità. Vive nei gesti più semplici, nelle parole ripetute senza sapere perché, nei sapori che ritornano come ricordi.

Penso a mia nonna, che ha sempre vissuto in Italia. Non ha mai parlato di cittadinanza. Non ne aveva bisogno.
In ogni suo gesto c’era già tutto ciò che tanti e tante oggi ancora lottano per vedere riconosciuto: il nome portato con orgoglio, il piatto che raccontava una storia, il rito che senza parole diceva chi siamo, indipendentemente da un documento.
E ora, in mio nipote, riconosco quello stesso senso di appartenenza che già si affaccia: ancora senza parole, ma già vivo.
Perché ci sono identità che si riconoscono ancor prima di essere spiegate.
E penso anche a chi quell’eredità l’ha ricevuta, ma non può condividerla pienamente.
A chi vive un’identità senza legittimità.
O a chi, forse, non conosce ancora fino in fondo le proprie radici, ma che, se riconosciuto o riconosciuta,potrebbe ritrovarle con dignità.

Perché l’appartenenza può essere anche un invito. E il riconoscimento, una forma per risvegliare la memoria.Perché è in questa vibrazione che la cittadinanza acquista senso.
Non solo come diritto strettamente giuridico, ma come riconoscimento profondo di una storia che continua.

Che continua in me, oggi, emigrata in Brasile, ogni volta che il profumo del ramoscello di ulivo secco mi riporta alla casa della mia infanzia e mi ricorda che quel senso di appartenenza esisteva già a prescindere.  E mi addolora sapere che, tra due generazioni, tutto questo patrimonio, che è mio, ma anche seme del futuro, rischi di perdersi, sacrificato sull’altare di una burocrazia cieca e deresponsabilizzante, e di un governo che, invece di costruire ponti con i suoi figli sparsi nel mondo, alza barriere fredde e disumane, trattando la memoria come un peso, l’identità come un fastidio, e la cittadinanza come un favore da concedere.

Perché il gesto che benedice afferma anche: “Tu fai parte.”E ogni storia merita di essere accolta dove è nata e dove continua.

’O Beneditt’ Pasquale ci insegna che la tradizione è l’amore che persiste,
che la fede può abitare in un pane, e che la benedizione, quando è fatta con amore, arriva sempre dove deve.

Non è solo un rito bello. È un modo per ricordare, con il corpo e con l’anima, che siamo parte di qualcosa che ci precede e ci unisce.
E che questa appartenenza, per essere piena, ha bisogno di essere riconosciuta.

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