di James Hansen
Il prezzo del carbone sui mercati internazionali sale da 24 settimane di fila. Il benchmark —il parametro di riferimento comunemente utilizzato nel commercio mondiale—è il carbone australiano denominato “Newcastle thermal”. È salito del 400% in un anno e ultimamente il prezzo sta crescendo a un tasso di 12% la settimana.
La causa immediata sono i prezzi stellari—e la semplice scarsità—del gas naturale. Questi incentivano il ritorno alla molto vituperata fonte d’energia “più inquinante”, il carbone per l’appunto, che avevamo pensato appartenere ormai al passato. Secondo dati IEA-International Energy Agency, il prezzo del gas naturale in Europa e in Asia è decuplicato tra ottobre del 2020 e lo stesso mese di quest’anno.
Tutto ciò è ovviamente un’ottima notizia per i produttori di carbone, ma molto meno per noialtri, specialmente con ciò che si presenta come il prossimo arrivo di una nuova “crisi energetica” che farà aumentare di molto il costo del riscaldamento domestico e di buona parte della produzione industriale. Vuol dire anche che, alla prova dei fatti, la “rivoluzione” delle fonti rinnovabili ha fatto, almeno per ora, cilecca. È la conferma che, al dunque, non ci si può contare.
La colpa immediata si darà a Vladimir Putin, che ha fatto ridurre drammaticamente le forniture del gas russo all’Europa occidentale. Ciò nel tentativo di obbligare la Germania e la Ue a procedere all’immediata autorizzazione dell’entrata in servizio del gasdotto baltico Nord Stream 2 senza tenere conto della legislazione “verde” europea. L’Europa però non è il mondo e questa è solo una parte della storia, nemmeno la più importante.
Molto è dovuto—forse ovviamente—ai turbamenti economici causati dal Covid, alle interruzioni delle catene logistiche e anche semplicemente al meteo, che in alcuni paesi importanti ha negato alle turbine eoliche quel vento che doveva farle girare a dovere. Una parte della colpa è umana, nostra e delle organizzazioni governative che—convinte che bastasse decretare la vittoria della rivoluzione verde per compierla—hanno tentato una serie di passi più lunghi della gamba in materia d’energia, introducendo pesanti balzelli fiscali sulla produzione energetica convenzionale e chiudendo impianti esistenti senza attendere valide alternative.
Persino la “carbonifera” Cina si era allineata alla fine, serrando, giusto in tempo per la crisi in arrivo, delle vaste miniere di produzione nello Shanxi. Lì, secondo la Reuters, sono stati chiusi quattro impianti di estrazione con una capacità produttiva complessiva annua pari a 4,8 milioni di tonnellate. Le importazioni cinesi di carbone sono incrementate del 76% nel solo mese di settembre.
Che fare dunque? Per il prossimo futuro, possiamo stringere i denti e sperare che passi anche questa sciagura—e che non faccia troppo freddo quest’inverno. Intanto, le motivazioni che spronano le ricerche di forme alternative di approvvigionamento energetico sono assolutamente valide. Sarebbe bene però tentare—prima di ri-spingerci troppo in là—di imparare a non confondere le nostre ambizioni più nobili con i fatti compiuti.