di Giampiero Mughini
Da siciliano che fin dai suoi primi vent’anni ebbe come incisa nell’anima Trieste, la città la più italiana di tutte, la città che valse i 600mila caduti della Prima guerra mondiale, la città cui dovrebbe appartenere la salma conservata nella Tomba del Milite Ignoto a Piazza Venezia a Roma (quella salma venne scelta da una madre triestina che aveva perso il figlio nei combattimenti e mai più ritrovato), è per me straziante vedere che nella piazza la più iconica della città seggono italiani e triestini (del tutto pacifici al momento) che sembrerebbero voler fare a cazzotti con il sentimento dominante nel resto d’Italia. Ossia che a combattere contro questo maledetto virus pandemico il vaccino è l’arma migliore che abbiamo a disposizione tra quelle possibili. Semplice, semplicissimo.
Quando alcuni anni fa ero stato a Trieste per motivi di lavoro, e avevo fatto una capatina a quello struggente porto che era stato il porto più importante dell’Impero austroungarico e che ancora ieri sera una minoranza della minoranza voleva bloccare a che facesse da passaggio indispensabile di beni e merci destinati a tutta l’Italia, non ricordo chi mi mostrò un enorme capannone dove da mezzo secolo albergavano le valige e i bauli e i beni di una gran parte di quei 350mila italianissimi che dalla Dalmazia e dagli altri confini di Trieste fuggirono via dalle meraviglie del comunismo titino, ed è una vergogna dell’italocomunismo che per una gran parte di quella storia il Pci fosse ben lieto di donare la città di Trieste, la città di Umberto Saba e Italo Svevo, ai comunisti titini. Ho conosciuto un ex parlamentare missino che aveva fatto nei primi anni i cortei perché Trieste rimanesse italiana e che in uno scontro con la polizia ne ebbe un ordigno che per tutta la vita gli azzoppò una gamba. Erano i missini che volevano che Trieste rimanesse italiana, gli altri ahimè erano tiepidi.
Certo che le forze armate fasciste avevamo fatto delle sporcaccionerie contro sloveni e jugoslavi durante la Seconda guerra mondiale, ma è solo da vent’anni a questa parte che la denominazione tragica di “foibe” viene pronunciata nel discorso pubblico italiano. Non certo per stabilire un’equivalenza tra questa tragedia e la tragedia immensa su tutte e imparagonabile a qualsiasi altra che ha nome Shoah. No, no, no, non per questo. Ma solo per ricordare i martiri del 1945 colpevoli solo di parlare la nostra lingua. La lingua che era quella dei romanzi di Svevo e delle poesie di Saba ma anche quella dei fratelli Carlo e Giani Stuparich, di Carlo Michelstaedter, di Stelio Mattioni (uno scrittore oggi dimenticatissimo), del Virgilio Giotti che perse due figli caduti nella sciagurata guerra contro l’Urss, dell’immenso Biagio Marin, di Anita Pittoni, del Bobi Bazlen che indusse Roberto Calasso a fare dell’Adephi la più bella casa editrice italiana del secondo dopoguerra. Non esiste alcun altro comparto della nostra storia culturale che sia ricco quanto quello dei nativi di Trieste, città italianissima su tutte perché ha pagato il più alto prezzo per esserlo.
Mi direte che sono cose lontane. Non dite sciocchezze. Ciò che è stato l’altroieri costituisce i nervi e il sangue di quello che noi siamo oggi. La tomba del milite ignoto non è una tomba di ieri, è una tomba che consacra il nostro essere italiani oggi. Tutto avremmo voluto della Trieste odierna ma non che vi si accampassero quelli che rifiutano le regole dell’Italia odierna. Quelle regole che costarono la vita a così tanti dei figli di Trieste, a così tanti di quelli che noi reputiamo i nostri fratelli nel sentire dell’oggi. Un’identità senza la quale saremmo solo povera cosa.