di Alessandro De Angelis
La notizia, o meglio la signora notizia, è la "mossa" di Mario Draghi, che sostanzialmente si è candidato al Quirinale. Ma è una signora notizia anche la reazione dei partiti, spiazzati, perplessi, sia pur con diversi accenti. La Lega fa filtrare la sua preoccupazione sui destini del governo, perché per Salvini già è complicato starci così, figuriamoci se può permettersi che siano altri a guidarlo, non lo reggerebbe un minuto. I Cinque stelle sono terrorizzati dal voto anticipato ed è difficile che possano sentirsi rassicurati dal ragionamento che il governo possa andare avanti "indipendentemente" da chi lo guida. Il Pd auspica che "la legislatura vada avanti" in continuità con Draghi e non dice di no oggi perché sa che magari dovrà dire sì domani quando la destra mollerà Berlusconi, ma non dice neanche sì, insomma gioca di rimessa. Berlusconi vuole andare lui quindi imbullonerebbe il premier a palazzo Chigi. E pure Giorgia Meloni oggi ci va giù dura sull'"autocelebrazione" andata in scena nella conferenza stampa del premier, che pure non attaccava da un po', perché Draghi ha escluso le elezioni anticipate, dunque diventa meno appetibile.
Va bene, è solo l'inizio. C'è ancora un mese di tempo e l'ingombrante candidatura di Silvio Berlusconi che magari, al momento giusto, spariglierà diventando il primo sostenitore del premier ma, appunto, al momento giusto e solo dopo attenta analisi di costi e benefici. È comunque l'inizio vero perché da oggi la candidatura di Draghi esce dal campo delle elucubrazioni ed entra in quello della prima, concreta, ipotesi politica. Però è già evidente che l'incrocio delle agende individuali non fa un'agenda collettiva forse anche perché la discussione avviene in presenza di un convitato di pietra non banale di nome pandemia che registra, proprio oggi, il record di 36mila contagi e 146 morti, segnando una inquietante progressione.
Vale per l'agenda di Draghi, che ha accontentato se stesso, ma non si è fatto carico del tema più generale, scontentando tutti. È complicato spiegare al paese che l'emergenza c'è ancora e che il governo ha ben operato, ma non cambia nulla sia se resta sia se ne va da palazzo Chigi il perno di questo governo. Ed è ancor più complicato che l'uomo chiamato a salvare l'Italia dopo il collasso del sistema dei partiti chieda ai collassati di farsi carico di un ruolo di regia nel formare un nuovo governo, in un nuovo momento acuto della pandemia, confidando che riescano a fare ciò che un anno fa non fecero, producendo il suo arrivo. Cioè di avere un progetto che non hanno, avendo ognuno il suo.
Abile nel mettere in campo gli strumenti per perseguire il fine, il premier, in conferenza stampa ha utilizzato due elementi di pressione. Il primo: ha spiegato, con buone ragioni, che se le forze politiche si spaccano sul Colle è difficile che questo non abbia ricadute sul governo. Un messaggio: l'unico che non produce questa spaccatura, tenendo unita, sul Quirinale la maggioranza di governo, è se medesimo. La seconda: ha fatto capire che, se ricoprirà il ruolo di Mattarella, avrà la stessa contrarietà del predecessore alla fine anticipata della legislatura, destabilizzante per il contrasto alla pandemia, la ripresa e il Pnrr. È in sostanza, quel "semipresidenzialismo" di fatto di cui aveva parlato Giorgetti (ricordate il "Draghi può guidare il convoglio anche da lì"?).
C'è il problema però – e questo spiega la freddezza dei partiti oggi – del collasso di cui sopra, che rese necessario l'arrivo di Draghi, grazie alla regia di Sergio Mattarella. Ognuno ha una doppia agenda tra quel che dice e quel che pensa: non è un mistero che Salvini non vede l'ora di sfilarsi dal governo, piazzandosi all'opposizione per recuperare voti alla Meloni e che, in fondo, anche Letta ha una gran voglia di cambiare i gruppi parlamentari passando per il voto. E non è un mistero che i leader – un po' tutti - non controllano i gruppi parlamentari i quali prima di pagare moneta (Draghi) vogliono vedere cammello (un governo che salvi la loro cadrega).
Nessuno può al momento assicurare che l'ascesa di Draghi al Quirinale non sia un salto nel buio, anche a fronte di rassicurazioni pubbliche che comunque al momento mancano. E nessuno può assicurare che tra qualche settimana la realtà non rompa la bolla politicista che avvolge una discussione segnata dal ribaltamento dei piani e elle priorità tra Quirinale e pandemia. Il film proiettato oggi sui risultati del governo che "ha salvato l'Italia" e che può andare avanti "indipendentemente" da chi ci sarà può non esserci più di, di fronte all'esplosione dei contagi. O meglio: sarà proiettato il film sul come continuare a salvare l'Italia e, magari in modo strumentale, sul perché di un altro gennaio in trincea, sui limiti e sugli errori che sono stati commessi.
Ad oggi: la forza di Draghi è nel nome, nel consenso potenziale e anche nell'opportunità della sua funzione di garanzia per sette anni. La sua debolezza: questa elezione non avviene "indipendentemente" dal governo, che non è non un organigramma, ma il luogo della responsabilità e della direzione politica del paese, in un momento come questo. Draghi oggi l'ha presa dalla testa (il Colle), ma il problema è la coda (il governo). È dipendente, arcidipendente da quella. E il problema è pure il "testacoda" perché non sarebbe senza effetto, in termini di forza e legittimazione, rimanere al governo con coloro che ti hanno rifiutato per il Colle.