DI ALESSANDRO DE ANGELIS

La verità, antica e moderna, è che prima dei discorsi, di Draghi, di Scholz, delle élite europee, c'è la forza dei popoli, ed è la forza dei popoli che spinge discorsi e governi e non viceversa. La straordinaria resistenza del popolo ucraino, innanzitutto, e l'enorme folla radunatasi sotto la porta di Brandeburgo, lì dove 33 anni fa si riunificò l'Europa sotto le macerie del muro di Berlino, a conferma di quanto conti la forza dell'opinione pubblica nelle democrazie. E di quanto sia ingannevole l'idea che le autocrazie abbiamo un vantaggio strategico dovuto al fatto che l'autocrate decide da solo, senza l'impiccio della "voce" di un paese.

Kiev non è Kabul, come cultura e distanza geografica né un pezzo della steppa asiatica, ma una grande capitale europea che si sente tale. E la resistenza ucraina, che è militare, ma anche politica e morale di un paese, ha scosso le timidezze delle leadership europee, che la notte dell'invasione, quando si pensava che quella di Putin fosse una guerra lampo, erano avvitate attorno a un primo pacchetto di sanzioni "morbide", poi forse un secondo, poi forse lo Swift ma selettivo, insomma la solita politica degli "step". Fallito il blitzkrieg, sono diventate il più dure possibile grazie alla spettacolare resistenza di Zelensky, che lo spirito del suo popolo lo incarna forse anche grazie all'animo dell'attore capace di ingaggiare una sorta di guerra di comunicazione asimmetrica. Di spiazzare i russi come i turchi che, a studiarla a tavolino, non sarebbe venuta così bene.

Perché poi, diciamocelo, ogni popolo ha i suoi attori: c'è chi ha Grillo che blocca il Tap, chi ha avuto Reagan che firmò il disarmo con Gorbaciov, chi questo sottostimato leader che chiama in diretta i capi dei governi europei, convertendoli sullo Swift e bloccando in tal modo carte di credito e conti correnti di banche e oligarchi. È grazie all'anelito europeo dell'Ucraina che l'Europa, per una volta, viene trascinata lontano dal famoso "spirito di Monaco" riattualizzando ciò che diceva Jean Monnet e cioè che l'unico modo per farla crescere sono le crisi come, in fondo, si è visto con la pandemia che ha rottamato il rigorismo del patto di stabilità.

E quel popolo tedesco che rompe l'antico riflesso pacifista della Germania, paese che non è mai andato oltre operazioni di peacekeeping e, al primo stormir di fronda ha valutato il ritiro dal Sael, con Scholz ieri decide di portare la spesa per la difesa al due per cento del Pil, richiesta che fu di Donald Trump e rimasta finora inevasa. È la più grande operazione di ammodernamento della difesa vista nella storia recente di quel paese. E con la Germania, Finlandia, Svezia, Norvegia, mobilitatesi sulla paura di fronte un precedente che avrebbe portato l'insicurezza ai propri confini.

Ecco, anche il discorso di Mario Draghi è figlio di quel che è avvenuto in questi giorni. E infatti, rispetto alle comunicazioni di venerdì scorso, corrette come posizionamento ma algide come pathos, incrocia di più il pathos del tempo, ponendo la sfida all'altezza di quel che è, un attacco al cuore dell'Europa, attraverso il paragone con quel che avvenne nel '39. Anche se, sul passaggio, va in scena un singolare giallo. C'è una frase nel testo reso noto ai giornalisti che Draghi, in Aula, non legge. E riguarda proprio la similitudine con Hitler e con "l'annessione dell'Austria, l'occupazione della Cecoslovacchia, l'invasione della Polonia". Draghi si limita a evocare "ciò che accade 80 anni fa", prudenza lessicale forse giustificata dal voler evitare, nell'immaginario collettivo, lo scenario conseguente di una nuova guerra mondiale, come se fosse inevitabile. Ma comunque non muta il senso della denuncia, della posta in gioco, della fermezza della risposta, il "non tollereremo".

Sia come sia, il discorso registra un cambio di passo oggettivo, anche in un paese entrato in questa crisi col retropensiero del Pil e angosciato dalle sue fragilità strutturali, in materia di energia, dopo anni in cui si è spogliato delle produzioni domestiche per andare a comprare all'estero. È il passaggio in cui il premier dice che "Putin pensava fossimo inebriati dalla ricchezza, ma si è sbagliato perché reagiamo". Rispetto alle timidezze da alleato riluttante, indicato anche da alcuni partner europei come il ventre molle dell'alleanza, c'è il senso di un approccio non negoziabile, sia pur senza nascondere le difficoltà da affrontare: "Sul gas abbiamo più da perdere rispetto ad altri, ma questo non diminuisce la nostra determinazione".

Anche rispetto all'opinione pubblica nazionale, molto più timida qui che altrove, dopo giorni in cui il dibattito ha mostrato una sorta di imprigionamento delle élite nostrane nella morsa tra Pil e collocazione internazionale. Politiche, ma anche economiche, in un singolare rovesciamento del paradigma della guerra fredda che ha mostrato larga parte dell'establishment se non filorusso come ideologia, quantomeno prudente rispetto ai sacrifici da affrontare. La guerra calda, e i popoli, sembrano aver corretto la rotta condizionando i governi. È la democrazia, bellezza.