di Alessandro De Angelis
Per tubare, tubano, quasi come due tortore in primavera, anche perché forse li accomuna una certa grammatica da Seconda Repubblica: le presentazioni dei libri, i giornali, le feste di partiti, cose normali prima del diluvio social e dalla politica in diretta Facebook. E se lui scrive al Foglio, giornale elitario ed atlantista, per il suo manifesto neo-spinelliano, lei interloquisce con garbo, pubblicando, sullo stesso giornale, il suo manifesto, diciamo così, conservatore. Così come garbatamente lui aveva accettato l’invito, con lei, a Farefuturo. E di lei ad Atreju, con una certa indulgenza dopo lo sdegno antifascista delle braccia tese di Carlo Fidanza, gesto vissuto come un pugno nello stomaco da una larga parte del Pd che ci sarebbe andata cantando Bella ciao.
Insomma, “caro Letta”, “cara Meloni”, i due parlano, mai un attacco crudo, si legittimano - anche criticarsi un po' significa legittimarsi – e in fondo anche questo fa molto Seconda Repubblica, come quando Fini diventò l’interlocutore, simbolo della destra presentabile rispetto all’impresentabilità berlusconiana, e ora c’è il problema dell’impresentabilità salviniana, con cui però il Pd è al governo: mica male. Sul Quirinale è franato il patto implicito, che suonava più o meno così, “mandiamo Draghi al Colle, e noi ci giochiamo Palazzo Chigi”, l’una certa di conquistare l’egemonia del centrodestra su Salvini, l’altro quella del centrosinistra sui Cinque Stelle. Patatrac, causato anche dal revival gialloverde, dall’ingombrante ruolo di Berlusconi, eccetera eccetera.
Adesso, la cornice diventa l’atlantismo, declinato in forma più neo-trumpiana per l’una, più tradizionale per l’altro, dentro il quale proseguire, con altri mezzi, lo stesso schema per contendersi il governo, l’uno facendo prigioniero Conte, l’altra Salvini, che nel frattempo ha votato Mattarella al Colle, ma lo ha dimenticato, nell’ebbrezza lepenista. Mentre lei, che Mattarella non lo ha votato, sogna di riceverne l’incarico, quando sarà, “sotto l’ombrello della Nato”. E fin qui, con tutte le non poche contraddizioni, ha la parvenza di uno schema, di questi tempi meglio di una pochette neutralista o di una gaffe polacca. Quantomeno rivela le intenzioni, le legittime ambizioni e anche quanto nessuno pensi di cambiare le legge elettorale in senso proporzionale: con ogni evidenza, gli interlocutori del Pd verso cui ammiccare sarebbero tutti tranne la Meloni, anzi lo è più Salvini che ha il problema di finire sotto il suo tacco, e quella parte della Lega che non vuole morire sovranista.
Conservatori e riformisti: se fosse così, roba da “paese normale”, avrebbe un senso, anche senza evocare Fiuggi, il pericolo di una svolta mancata, né oggi né dopo, perché la patente, quando si dà, poi non si può ritirare se rischi di perdere le elezioni o in tv va il barone nero. La “destra normale”, però ha un problema di nome Orbán, cuore del ragionamento che la Meloni ha sviluppato sul Foglio, nel suo manifesto dove illustra la concezione dell’Europa degli Stati sovrani contrapposta agli Stati Uniti d’Europa, vecchio cavallo di battaglia sin dalla convention dei conservatori mondiali tre anni fa.
Va bene, della Le Pen non si parla, come del resto la Le Pen non parla di sé nel senso dei legami con Putin e dei soldi ricevuti da banche ungheresi e russe per il suo partito, ma, in nome della sovranità dei popoli, si difende Orbán, colui che ha festeggiato la sua vittoria “contro Soros e Zelensky”, il più contrario dell’accoglienza dei profughi e al transito delle armi. Non è una novità, sin da quando fu accolto con le lacrime agli occhi dalla folla di Atreju che intonava le note di “Avanti ragazzi di Buda”, l’anno dopo che da quelle parti Steve Bannon, dallo stesso palco, si rivolse ai “patrioti europei”.
La novità, a stento coperta dalla furbizia retorica, è proprio nel cortocircuito politico, amplificato dal momento, per cui da un lato non si parla del putinismo embedded in Francia, dall’altro si rimuove quello palese in Ungheria in nome di una generica sovranità dei popoli. Cortocircuito che, al tempo stesso, rivela una mancata svolta teorica e una difficoltà politica. La svolta mancata (leggetela la lettera al Foglio) è sull’utilizzo della categoria di “democrazia formale”, in opposizione alla “democrazia sostanziale”, argomento tipico di chi non la riconosce fino in fondo, perché, da che mondo è mondo, la democrazia, senza aggettivi, si basa sul rispetto dello Stato di diritto (quello violato in Ungheria per intenderci).
La difficoltà politica è in Europa, più che in Italia, dove la Meloni guida il gruppo dei conservatori. E ha il problema di tenerlo unito di fronte alle manovre di Salvini impegnato in un grande rassemblement neo-sovranista. È riuscita a tenere agganciati i polacchi, ma vacilla il capo di Vox Santiago Abascal, non proprio un moderato, che non disdegna l’idea di gruppone unico. Per questo gioca con l’ambiguità, e col doppio passaporto (Washington e Budapest) mantenendo tutti gli assi portanti del nazionalismo anche sotto il vestito atlantista, con grande furbizia. Ma di nuovo c’è poco.