di Mimmo Porpiglia
Quel giovedì del 25 aprile 1963 non lo dimenticheró mai. Compivo 18 anni, quindi ero finalmente “maggiorenne”…. Ogni giovedí Maria la nostra cameriera, cucinava il sartú di riso. (Il sartù – per chi non lo sapesse - deriva dall’espressione francese sourtout, che indica un indumento in grado di “coprire tutto”, come un soprabito o un mantello. Nel Settecento, i cuochi francesi, conosciuti come monsù, che lavoravano presso le case nobiliari, avevano elaborato a Napoli questo piatto a base di riso, aggiungendo il pomodoro ed un ripieno ricco a base di carne, uova, piselli. I napoletani più che altro amanti della pasta non hanno mai preferito il riso, ma quando re Ferdinando di Borbone assaggiò il sartù di riso, gli fu talmente gradito che la fama di questo piatto gustoso a base di riso si diffuse ben presto, e il sartù entrò a pieno diritto nella tradizione culinaria napoletana).
Maria, ricordo, cominció a prepararlo – come sempre – il giorno prima, mercoledì, nel pomeriggio. Con noi ragazzi sempre in cucina a guardarla. Ore e ore ad assistere, senza toccare per carità, come componeva questo difficile piatto franco-napoletano. Ormai conoscevamo a menadito ogni suo passo, ogni suo movimento…Che c’entra direte voi il sartú con giovedì 23 aprile del 1963, il tuo compleanno? C’entra, c’entra perché anche quella delizia fa parte dei miei ricordi piú belli. Compivo 18 anni, ho detto, potevo prendere la patente di guida e il passaporto, ma soprattutto potevo andare in giro per il mondo, e da solo….
Cosí, mentre tutti noi mangiavamo quel meraviglioso sartú ebbi la prima sorpresa. Mia nonna slacció la collana con il crocifisso che aveva al collo, si avvicinò e la cinse sul mio collo. "È appartenuta a mia madre, che la dette a me, per i miei 18 anni e ora sarà tua, per tutta la vita… proteggila come ti proteggerà questo crocifisso…. Questa collana avrei voluto donarla quando sei nato perché non pensavo di vivere fino ad oggi, ma anche quel giorno tuo nonno e tuo padre litigarono...anche nel giorno piú bello per l’Italia e per la nostra famiglia, la tua nascita, il primogenito…..finí con parole grosse e senza brindisi….e sai perché? Litigarono sul tuo nome come ti avrebbero battezzato… Oggi siamo tutti calmi e contenti. Il passato é sepolto… E hai un bel nome, Domenico…..Mi raccomando questa collana non perderla…….” Ce l’ho ancora al collo la collana e il crocifisso di mia nonna, e l’ho salvata anche da una rapina, la prima in un ristorante a Napoli. Arrivarono al Sarago armati e incappucciati io indossato un maglione a V e per non farmi prendere la collana la coprii con le due mani aprendo la V del maglione e dicendo:”Non ho niente” ma quel gesto fece scoprire il mio orologio, un Piaget regalo di mio zio, che mi fu strappato dal polso… Riprendo il ricordo: terminammo di pranzare senza polemiche quel 25 aprile del 1963 con la torta e gli auguri di rito, ma io volevo sapere cosa successe veramente il 25 aprile del 1945, giorno della liberazione dell’Italia e anche della mia nascita. Cosí quando mio padre tornó la sera, dal suo studio di radiologia, gli chiesi spiegazioni. “Sei nato alle 4 e mezza del pomeriggio – cominció mio padre – questo giá lo sai, mentre Napoli e tutta l’Italia erano in festa. Avevamo deciso, insieme con tua madre di chiamarti Libero sia perché sei nato nel giorno della Liberazione sia per commemorare un sacerdote di Pisa, Don Libero Raglianti, Parroco di Valdicastello che avevo conosciuto come “partigiano combattente” e che era stato torturato e fucilato dai nazisti. Un grande prete, un grande partigiano e un grande amico cui é stata conferita anche la medaglia d’oro al merito civile…ma in serata arrivò tuo nonno Vincenzo, con le solite idee fasciste e voleva mettere bocca anche sul tuo nome. Disse che dovevi chiamarti Francesco, il santo patrono d’Italia…ma non spiegó che premeva per quel nome perché, era fanatico del Duce…Che significassero quelle parole infatti le scoprii in serata. L’iniziativa della proclamazione di San Francesco quale Patrono d’Italia venne personalmente caldeggiata da Mussolini, autore della famosa definizione secondo cui Francesco d’Assisi era il più santo degli Italiani ed il più italiano dei Santi: come molte uscite di carattere letterario del Duce, anche quella – in realtà – era stata escogitata da Gabriele D’annunzio; il Vate doveva in qualche modo sdebitarsi per il dorato pensionamento offertogli dal regime nel “Vittoriale” di Gardone Riviera., hai capito che pretese? Il Duce ho poi appurato la sera stessa – usò veramente San Francesco, l’uomo del dialogo con l’«altro», come simbolo di un nazionalismo che si incardinava anche nella tradizione cattolica: «La nave che porta in Oriente il banditore dell’immortale dottrina accoglie alla prora infallibile il destino della stirpe, che ritorna sulla strada dei padri. E i seguaci del Santo che, dopo di lui, mossero verso Levante, furono insieme missionari di Cristo e missionari d’italianità…
"Allora quel 25 aprile del 1945 tua madre cercó di far da paciere e propose il nome di Vincenzo, che era il nome del padre, tuo nonno. spiegando che San Vincenzo era anche patrono di Napoli…Un bel nome…. - disse mia nonna - ” San Vincenzo Ferreri é compatrono di Napoli e patrono del Rione Sanità, é conosciuto anche con l’appellativo di ‘O Munacone. La sua statua è conservata nella Basilica di Santa Maria della Sanità, meglio conosciuta, appunto, come Chiesa di San Vincenzo alla Sanità. Secondo le credenze, nel 1836 la statua fu portata in processione in occasione dell’ennesima epidemia da cui venne sconvolta la città e, grazie all’intercessione del Santo, il contagio terminò prodigiosamente. Da questo evento miracoloso, ogni 5 aprile, giorno della sua morte, dopo la funzione presso la chiesa, si tiene il rito “trase e jesce” dedicato al santo, in cui la statua del patrono viene portata in spalla dai membri delle associazioni cattoliche locali e, saltellando a ritmo, viene fatta entrare ed uscire per tre volte di seguito dall’entrata della chiesa...
"A quel punto a me non stava bene.. – intervenne mio padre – e cominciammo a litigare… Lui andó via, tua nonna rimase da sola per tutta la sera seduta accanto a tua madre mentre la gente in strada ballava e gridava “Libertá, libertà…Siamo liberi…”
Papá, ma allora come mai mi chiamo Domenico?
“Alla fine Libero Francesco e Vincenzo vennero messi da parte decidemmo di pensarci nei giorni successivi. Il 25 aprile del 1945 era un mercoledí e tre giorni, dopo, sabato, arrivó mio padre, nonno Domenico – continuó – discendenza spagnola, nobiltá di Alicante… e nel corso del pranzo domenicale mise tutti a tacere.. Si chiamerà Domenico, come me, – disse a tutti noi con voce ferma – come mio padre e come mio nonno. Un bellissimo nome di grande santo, San Domenico de Guzman un nostro antenato…Al nascituro Domenico, a Mimmo ho giá intestato una delle mie terre in Aspromonte, la collina che scende verso Scilla, non posso tornare dal notaio per cambiare l’atto. Farei la figura del rimbambito. Domenico é un bel nome.”
Mio nonno, quello paterno, aveva dimostrato, come sempre, carisma e veri “attributi”. Pochi anni prima, infatti, negli Usa dove si era recato per incontrare il fratello che aveva impiantato nel New Jersey un’azienda agricola per la coltivazione di fragole – oggi i suoi discendenti sono fra i primi nel mondo – scivoló sui binari del tram, e una ruota gli tranció netto il braccio destro. Lui sanguinante raccolse l’arto amputato si fece portare in ospedale e in italiano disse al chirurgo: “Riattaccamelo per favore!!!” Roba da pazzi…..
Prima di andare a letto quel famoso giovedì 25 aprile del 1963 sfogliai l’eniclopledia per sapere chi é veramente il santo da cui ho preso il nome… e lessi che San Domenico de Guzman “spagnolo di origine é morto a Bologna nel 1221. Non visitò mai Napoli di persona, ma fu il fondatore dell’ordine dei frati predicatori, uno dei più potenti ordini religiosi cristiani. A Napoli furono i titolari dell’omonima chiesa a Piazza San Domenico e contendevano il potere ai Teatini e ai Gesuiti: la sua nomina a patrono di Napoli fu proposta dai nobili della città nel 1640 in omaggio al viceré Ramiro de Guzman, della stessa sua famiglia nobiliare….”
Per la veritá mi sarebbe piaciuto di piú il nome Libero che rispecchia maggiormente il mio modo di vivere, senza imposizioni, contro le ingiustizie e le furberie… ma ligio alle leggi…
Libero come sono anche chiamandomi Domenico di continuare a chiedere ai nostri politici, al Parlamento di elaborare urgentemente riforme istituzionali e azioni dal basso promosse dalla società civile per rispondere ai sovranisti, ai populisti, alle pulsioni pseudoscientifiche e catastrofiste e alle mire egemoniche e oppressive di culture politiche autoritarie e illiberali.
Beh, sono nato nel giorno della Liberazione, porto il nome di un Santo che é anche coprotettore della mia cittá, Napoli, vivo una vita bellissima e intrigante: molti mesi l’anno in questo meraviglioso Paese che é l’Uruguay, poi a Miami e d’estate torno a casa mia, tra Napoli e Capri; giro ancora il mondo, ho addirittura fondato e diretto un quotidiano… che é la massima aspirazione di un giornalista… e continuo a scrivere e a lottare contro le ingiustizie e le prepotenze….Ma cosa volete di piú dalla vita????? E allora viva sempre il 25 aprile del 1945, la Festa della Liberazione che é anche la mia festa…Per d piú oggi non si lavora....il 26 non escono i giornali in Uruguay......
P.S. A proposito ho cercato tante volte di cucinare il sartú come lo faceva Maria…finisce sempre e tragicamente in una “schifezza”….Riso al ragú ma mai sartú…….
QUEL SARTÚ CHE FACEVA MARIA CHE NON RIUSCIRÒ MAI A EGUAGLIARE
Maria cominciava dalle polpettine: in un vasetto di vetro metteva in ammollo la mollica di pane sulla quale versava del latte. In un recipiente a parte metteva carne macinata di manzo e di maiale, aggiungeva sale e pepe, aglio e prezzemolo tritati, le uova e versava la mollica di pane bagnata nel latte. Quindi cominciava a girare, girare prima con non la “cucchiarella” (un mestolo di legno) poi con le mani aggiungendo di tanto in tanto parmigiano grattugiato e formaggio romano. Infine formava le polpettine ( 45, 55, noi le contavamo tutte ogni volta). Le spianava sul grande tavolo di marmo della cucina, scaldava l’olio in una larga padella di rame e friggeva…. Una volta cotte – dovevano avere la crosta quasi bruciata – le poneva su di un piatto ricoperto da quei fogli grandi pesanti giallini che usavano i macellai per avvolgere la carne - e sui quali si depositava l’olio fritto. Contemporaneamente – mentre noi ne rubavamo un paio a testa per mangiarle di nascosto – Maria preparava il ragú, rigorosamente nel pentolone di terracotta. Una cipolla tritata in olio extravergine poi ci aggiungeva salsicce, “tracchiulelle” di maiale (costolette con carne e grasso) e soffrigeva, le sfumava con un biccherone di vino rosso versava abbondanti pomodori passati… e aspettava che il sugo “pippiasse” ( sbuffasse, sobbollisse ) finché raggiungeva la giusta intensitá di sapore: una bolla per volta, senza fretta, il tempo giusto della tradizione napoletana che esprime pazienza e riflessione.
La mattina dopo, il giovedí, riprendava il rito. In una padella faceva imbiondire la cipolla a pezzettini, aggiungeva piselli, funghi secchi e prosciutto cotto, e a parte cuoceva il riso nel pentolone aggiungendovi brodo vegetale e metà del ragù cotto. Spegneva il fuoco aggiungeva parmigiano grattugiato con due o tre uova sbattute – non ricordo bene quante – e amalgamava bene il tutto. Versava un po’ di piselli cotti insieme con prosciutto e funghi e prendeva il grande ruoto rettangolare dove aveva giá posizionato, al centro le polpettine un pó di salsicce cotte tagliate a pezzetti, il resto dei piselli il fior di latte e uova sode tagliate a fette. Ricopriva con il resto del riso, cospargeva la superficie con il pangrattato e qualche ciuffetto di burro e infornava questa vera meraviglia, delizia del nostro palato….