di Fabio Martini
Per tre giorni Giorgia Meloni si è presa i riflettori con i suoi slogan immaginifici e Matteo Salvini ha provato ad oscurarla, almeno un po’, rilanciando una proposta hard: la sanatoria per 140 milioni di cartelle esattoriali. Una proposta che sinora non ha riscaldato neppure i giornali di centrodestra e che illustra lo stallo di un leader che da due anni e mezzo cerca di invertire quel fato avverso che lui stesso ha stanato il 7 agosto 2019.
Quel giorno Salvini uscì precipitosamente dalla maggioranza di governo e da quel giorno ha diffuso qualcosa come settemila messaggi, tra tweet e post Facebook, e quasi ogni sera esterna ai microfoni dei Tg: una raffica di parole che ha accompagnato una graduale e alla fine drastica diminuzione nelle intenzioni di voto di milioni di italiani. Certo, sullo scatto Salvini continua ad essere un campione. Un fuoriclasse del trend topic. Dell’eterno presente. Inesorabile nei no (anzitutto alle tasse) e lapidario sui sì (agli scostamenti di bilancio), il capo della Lega vuole dar voce ai tanti italiani impauriti (gli operai e le piccole imprese, le partite Iva e gli artigiani) ma nessuno sa se abbia idee di breve, se non di medio periodo, per “stabilizzare” e dare certezze a quei ceti sociali e al resto degli italiani. Quale politica energetica? Che tipo di spending review per continuare a pensionare in anticipo e a non tassare i super-abbienti? Come restituire competitività al sistema-Paese? Come alzare i salari, combinando il giusto e il sano? Come impedire che ci sia una richiesta di un milione e mezzo di posti di lavoro, per i quali mancano al 40 per cento le competenze? Come impedire che l’inflazione si vada a sommare la recessione? Come rallentare la tendenza alla spesa pubblica “pie’ di lista”?
Certo, quasi tutti i leader navigano a vista, ma Salvini è il capo del partito con le radici più profonde e antiche in tutto il Parlamento italiano ed è anche il leader di un movimento che nei momenti migliori della sua storia ha saputo dar voce e raccontare le istanze della parte più moderna del Paese. Lo riconosce un avversario come Enrico Morando, che da presidente della Commissione Bilancio e da parlamentare Pds-Ds-Pd ha fronteggiato per 20 anni i leghisti: «La Lega di Bossi, interpretando la parte più dinamica del Paese disse allo Stato: se continuate così, se ci trascinate verso il parassitismo e l’improduttività di tutto il Paese, vi dobbiamo lasciare. Ce ne dobbiamo andare, perché siamo noi che vogliamo stare con la Baviera, con la Ruhr. Un’idea europeista . Un’idea che non hanno saputo interpretare al meglio, ma quella era». E la Lega di Salvini? «L’opposto. Lui vuole fare il partito nazionalista, sposa soluzioni populiste, va al Sud, dice che per ogni problema c’è lo Stato che risolve, diventa statalista. Un partito che non interpreta più la locomotiva del Paese, un partito nazionale e nazionalista e dice: “In Francia dobbiamo votare Le Pen”».
La Lega campionessa dei primi 10 metri dei 100 e della quale si faticano a capire le ricette di politica economica, resta oscillante anche nelle scelte fondamentali di politica estera, come Salvini ha dimostrato sulla vicenda ucraina, un posizionamento sul quale evidentemente pesano alcune opacità del passato . Per il professor Alessandro Campi nella politica italiana i rapporti con Putin sono diventati per tutti «la lettera scarlatta e chi se la trova appiccicata, fatica a liberarsene: ha lo stigma del perdente e inaffidabile, in particolare chi ha avuto rapporti di simpatia ideologica. Come Salvini».
La guerra ha rimpiccolito tutto il resto, compreso il turno amministrativo di giugno, che però vedrà coinvolte due “capitali” del Veneto leghista come Verona e Padova. Test delicati per tanti motivi. Sostiene Paolo Giaretta, per sette anni sindaco democristiano di Padova: «La corrente di opinione non strutturata e non militante (quella che dice “prima il Vento, federalismo, Roma ci impedisce di lavorare”) se l’è intestata Zaia che con la sua lista alle Regionali ha preso il 44,6%, mentre la Lega si è fermata al 16,9% e proprio il Governatore sembra guardare con un certo distacco alle sfide amministrative. Ma c’è qualcosa che fatica nel messaggio leghista: fare appello agli spaventati, che ci sono e sono tanti, è naturale ma nel passato una forza popolare come la Lega ha saputo accompagnare la protesta con proposte di cambiamento. Oggi non puoi più dire ai veneti, evadete le tasse, gli devi spiegare come ridare competitività al modello veneto. In Emilia-Romagna, piaccia o no, ci sono riusciti».
Dopo l’”invasione” di Giorgia Meloni nella sua Milano, Matteo Salvini non tradisce turbamenti o irritazioni. Ma i segnali che arrivano dai sondaggi sono univoci: la caduta prosegue. Certo, i sondaggi bisogna saperli leggere ed è sempre fuorviante fermarsi allo “0 virgola” settimanale del singolo istituto, ognuno dei quali ha un suo trend, una sua “lettura”. Ma stavolta siamo al coro. Nelle rilevazioni di fine marzo e di fine aprile, Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, vede una Lega che passa dal 16,3% al 15.9, la Swg dal 16,4 al 15,6 e la Ipsos dal 17,5 al 16,5. Tre rilevazioni che dicono la stessa cosa: oggi le intenzioni di voto per la Lega non soltanto si sono dimezzate rispetto al boom delle Europee 2019, ma sono cadute tutte sotto la quota raggiunta da Salvini alle Politiche del marzo 2018. E questo è un dato ineditoPer tre giorni Giorgia Meloni si è presa i riflettori con i suoi slogan immaginifici e Matteo Salvini ha provato ad oscurarla, almeno un po’, rilanciando una proposta hard: la sanatoria per 140 milioni di cartelle esattoriali. Una proposta che sinora non ha riscaldato neppure i giornali di centrodestra e che illustra lo stallo di un leader che da due anni e mezzo cerca di invertire quel fato avverso che lui stesso ha stanato il 7 agosto 2019.
Quel giorno Salvini uscì precipitosamente dalla maggioranza di governo e da quel giorno ha diffuso qualcosa come settemila messaggi, tra tweet e post Facebook, e quasi ogni sera esterna ai microfoni dei Tg: una raffica di parole che ha accompagnato una graduale e alla fine drastica diminuzione nelle intenzioni di voto di milioni di italiani. Certo, sullo scatto Salvini continua ad essere un campione. Un fuoriclasse del trend topic. Dell’eterno presente. Inesorabile nei no (anzitutto alle tasse) e lapidario sui sì (agli scostamenti di bilancio), il capo della Lega vuole dar voce ai tanti italiani impauriti (gli operai e le piccole imprese, le partite Iva e gli artigiani) ma nessuno sa se abbia idee di breve, se non di medio periodo, per “stabilizzare” e dare certezze a quei ceti sociali e al resto degli italiani. Quale politica energetica? Che tipo di spending review per continuare a pensionare in anticipo e a non tassare i super-abbienti? Come restituire competitività al sistema-Paese? Come alzare i salari, combinando il giusto e il sano? Come impedire che ci sia una richiesta di un milione e mezzo di posti di lavoro, per i quali mancano al 40 per cento le competenze? Come impedire che l’inflazione si vada a sommare la recessione? Come rallentare la tendenza alla spesa pubblica “pie’ di lista”?
Certo, quasi tutti i leader navigano a vista, ma Salvini è il capo del partito con le radici più profonde e antiche in tutto il Parlamento italiano ed è anche il leader di un movimento che nei momenti migliori della sua storia ha saputo dar voce e raccontare le istanze della parte più moderna del Paese. Lo riconosce un avversario come Enrico Morando, che da presidente della Commissione Bilancio e da parlamentare Pds-Ds-Pd ha fronteggiato per 20 anni i leghisti: «La Lega di Bossi, interpretando la parte più dinamica del Paese disse allo Stato: se continuate così, se ci trascinate verso il parassitismo e l’improduttività di tutto il Paese, vi dobbiamo lasciare. Ce ne dobbiamo andare, perché siamo noi che vogliamo stare con la Baviera, con la Ruhr. Un’idea europeista . Un’idea che non hanno saputo interpretare al meglio, ma quella era». E la Lega di Salvini? «L’opposto. Lui vuole fare il partito nazionalista, sposa soluzioni populiste, va al Sud, dice che per ogni problema c’è lo Stato che risolve, diventa statalista. Un partito che non interpreta più la locomotiva del Paese, un partito nazionale e nazionalista e dice: “In Francia dobbiamo votare Le Pen”».
La Lega campionessa dei primi 10 metri dei 100 e della quale si faticano a capire le ricette di politica economica, resta oscillante anche nelle scelte fondamentali di politica estera, come Salvini ha dimostrato sulla vicenda ucraina, un posizionamento sul quale evidentemente pesano alcune opacità del passato . Per il professor Alessandro Campi nella politica italiana i rapporti con Putin sono diventati per tutti «la lettera scarlatta e chi se la trova appiccicata, fatica a liberarsene: ha lo stigma del perdente e inaffidabile, in particolare chi ha avuto rapporti di simpatia ideologica. Come Salvini».
La guerra ha rimpicciolito tutto il resto, compreso il turno amministrativo di giugno, che però vedrà coinvolte due “capitali” del Veneto leghista come Verona e Padova. Test delicati per tanti motivi. Sostiene Paolo Giaretta, per sette anni sindaco democristiano di Padova: «La corrente di opinione non strutturata e non militante (quella che dice “prima il Vento, federalismo, Roma ci impedisce di lavorare”) se l’è intestata Zaia che con la sua lista alle Regionali ha preso il 44,6%, mentre la Lega si è fermata al 16,9% e proprio il Governatore sembra guardare con un certo distacco alle sfide amministrative. Ma c’è qualcosa che fatica nel messaggio leghista: fare appello agli spaventati, che ci sono e sono tanti, è naturale ma nel passato una forza popolare come la Lega ha saputo accompagnare la protesta con proposte di cambiamento. Oggi non puoi più dire ai veneti, evadete le tasse, gli devi spiegare come ridare competitività al modello veneto. In Emilia-Romagna, piaccia o no, ci sono riusciti».
Dopo l’”invasione” di Giorgia Meloni nella sua Milano, Matteo Salvini non tradisce turbamenti o irritazioni. Ma i segnali che arrivano dai sondaggi sono univoci: la caduta prosegue. Certo, i sondaggi bisogna saperli leggere ed è sempre fuorviante fermarsi allo “0 virgola” settimanale del singolo istituto, ognuno dei quali ha un suo trend, una sua “lettura”. Ma stavolta siamo al coro. Nelle rilevazioni di fine marzo e di fine aprile, Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, vede una Lega che passa dal 16,3% al 15.9, la Swg dal 16,4 al 15,6 e la Ipsos dal 17,5 al 16,5. Tre rilevazioni che dicono la stessa cosa: oggi le intenzioni di voto per la Lega non soltanto si sono dimezzate rispetto al boom delle Europee 2019, ma sono cadute tutte sotto la quota raggiunta da Salvini alle Politiche del marzo 2018. E questo è un dato inedito.